Trasporti, acqua, scuola, il babau del "privato"
Lo sciopero selvaggio a Genova rispondeva alla stessa logica del referendum contro la "privatizzazione" dell'acqua e le manifestazioni per la scuola pubblica: non si vuole accettare che lo Stato perda il monopolio.
Trasporti, acqua, scuola… ovunque compaia la parola “privato” spuntano gli striscioni, le proteste, la violenza. L’ultimo caso significativo è lo sciopero selvaggio degli autoferrotranvieri di Genova. La Amt, l’azienda dei trasporti pubblici genovesi, in grave perdita di bilancio, cercava dal 2006 un partner industriale per rilanciare i propri servizi a costi contenibili. Lo aveva trovato nella società francese Transdev, che poi è stata acquistata a sua volta dalla Ratp (la società pubblica che gestisce i trasporti di Parigi) e, infine, quest’ultima, nel 2011, aveva ceduto le sue azioni al Comune di Genova. Dunque si tratta, non di una privatizzazione, bensì di una partnership industriale con un’altra società pubblica dei vicini d’oltralpe.
L’Amt, tuttavia, si definisce “privatizzata” nel suo sito Internet. La parola “privatizzazione” ha iniziato a circolare come una minaccia. Ed è stata solo questa l’unica vera causa della levata di scudi degli autoferrotranvieri genovesi. Con buona pace dei cittadini, che si sono trovati a piedi anche negli orari in fascia protetta, per cinque giorni Genova è rimasta quasi paralizzata. Immancabilmente, il genovese Beppe Grillo si è fatto vedere in piazza, al fianco dei lavoratori (ma non dei cittadini rimasti a piedi). La violenza della protesta ha ricordato i metodi dei brigatisti: il presidente dell’Amt ha ricevuto un proiettile in busta. L’assemblea dei lavoratori si è dissociata dal gesto intimidatorio. Nella stessa assemblea, però, sono volati insulti contro i rappresentanti sindacali favorevoli a un accordo di compromesso. Alla fine la maggioranza ha votato per l’accordo. “L’Amt resta pubblica” è il risultato principale. Ma era già pubblica e sarebbe rimasta tale, è questo il paradosso.
“L’acqua è di tutti”, nessuno lo ha mai negato. Eppure è su questo slogan che è stata combattuta e vinta la campagna per il referendum contro la sua presunta “privatizzazione” nel giugno 2011. Il problema che si poneva allora era tecnico: il 30% o più dell’acqua trasportata negli acquedotti viene dispersa a causa di malfunzionamenti della rete. Servono decisamente più investimenti per migliorare il servizio. Tuttavia, enti locali e fondi nazionali, in tempo di crisi e debito stellare, sono molto scarsi. Dunque, si pensava allora, ben venga un contributo di privati. Apriti cielo. La campagna sull’acqua è stata una delle più martellanti e violente nella storia del referendum, pari solo a quella contro il nucleare (altra causa vinta negli stessi referendum del giugno 2011). L’immaginario collettivo pensava a qualche eccentrico miliardario col cappello a cilindro intendo a vendere acqua di rubinetto a caro prezzo. O a qualche satanasso di Al Qaeda col turbante intento a comprarla per avvelenarla. Il problema è che l’acqua non è stata “privatizzata”, dunque resta il problema: come distribuirla con una rete inefficiente e senza fondi per modernizzarla?
“La scuola è pubblica” è il mantra di chi vuole, non solo finanziare di più la scuola di Stato, ma lottare contro gli istituti privati. Il decreto istruzione, varato recentemente dal governo, è il trionfo di questa logica: esiste solo una scuola pubblica da finanziare, professori della pubblica da assumere (69mila in più). Le scuole paritarie, non statali, sono ignorate. Se vi fosse stata qualche apertura in più, sarebbe stata una generale insurrezione: ogni anno siamo abituati a vedere professori e studenti, per una volta fianco a fianco, nei cortei contro la scuola privata. L’elenco delle manifestazioni è troppo lungo per essere riportato, diciamo solo che ogni ministro dell’Istruzione ha dovuto svolgere il ruolo poco edificante di capro espiatorio per l’odio di classe e di tutte le classi dalle elementari all’università. Le ultime manifestazioni, però, hanno avuto un bersaglio in più: la possibilità che i privati potessero finanziare le scuole pubbliche. Già avviene: scuole disperate per mancanza di fondi ed equipaggiamenti si rivolgono a sponsor privati. È successo a Galliate (Novara), a Monza e nel liceo Mamiani di Roma. Tuttavia, la proposta del ministro Maria Chiara Carrozza, dare il via libera alla raccolta fondi privati per le scuole pubbliche, è stata salutata dalla solita levata di scudi di presidi, dirigenti e professori. “La scuola pubblica è pubblica, dunque deve restare di Stato” rispondeva ai microfoni di Radio 24 una dirigente scolastica di Roma. Perché non accettare gli sponsor, se sono utili? “Perché lo fanno sempre a fini commerciali” è stata la lapidaria e dogmatica risposta.
Come abbiamo visto, queste proteste sono state lanciate contro “privatizzazioni” che non erano tali. Adesso ipotizziamo uno scenario “da incubo”: ammettiamo che trasporti pubblici, acqua e scuola vengano interamente privatizzate. Cosa cambierebbe? Da un punto di vista del cliente: nulla. I trasporti continuerebbero a portare la gente in giro. L’acqua arriverebbe in ogni rubinetto. I bambini e i ragazzi continuerebbero ad andare a scuola. Il carattere “pubblico” di questi servizi non muterebbe. Anzi, probabilmente migliorerebbe, se i privati sono in competizione fra loro e cercano, dunque, di offrire servizi e benefici migliori. Chi teme ha privatizzazione, ha paura, essenzialmente di due cose: licenziamenti, esclusione di poveri e abitanti di aree anti-economiche. Ma le stesse cose possono verificarsi (e si stanno verificando) anche quando questi servizi sono nelle mani dello Stato. Gli esuberi non possono essere tagliati, a causa delle regole sul lavoro e della resistenza dei sindacati. Ma, dove può, lo Stato non assume più per mancanza di fondi. Con i privati sarebbe la stessa cosa, forse anche meglio, perché il datore di lavoro, non avendo le spalle coperte da un ente pubblico, è un soggetto più debole in una trattativa con i sindacati.
Esclusione dei poveri? Un servizio privato si paga. Ma nulla è gratuito: anche il servizio di Stato costa caro, ma non lo vediamo. Lo pagano tutti con le tasse, anche chi non usufruisce di quel servizio. Da un punto di vista del prezzo cambierebbe poco e quel poco sarebbe in meglio: un privato in concorrenza, tende ad abbassare i prezzi per reggere sul mercato. Lo dimostrano le compagnie telefoniche liberalizzate. Non esistono “aree escluse” dal mercato (paesini di montagna, isole e quant’altro) quanto, oggi, non esistano “aree escluse” dallo Stato. Il classico esempio del paesino troppo remoto per essere raggiunto da un servizio privato, non regge alla prova dei fatti: persino nella post-sovietica Georgia si sono sviluppati trasporti gestiti da imprenditori o da volontari (e anche dalla Chiesa ortodossa) per raggiungere ogni remota landa di quel territorio accidentato. In compenso, in Italia, assistiamo al desolante spettacolo di paesi non cablati, o non collegati ai servizi essenziali. Se lo Stato si fa garante della diffusione dei servizi a tutti i cittadini, lo può anche fare in via sussidiaria: garantire che l’acqua e i trasporti arrivino a tutti, che l’istruzione sia ricevuta da chiunque, intervenendo lì (e solo lì) dove il privato non arriva a coprire la domanda. La scuola è il classico esempio di intervento sussidiario possibile ma mai attuato. Ogni studente costa allo Stato (dunque al contribuente) circa 8000 euro. Se lo Stato desse ad ogni famiglia 4000 euro di buono scuola per ogni figlio in età scolare, pagheremmo la metà, i genitori potrebbero scegliere la loro scuola preferita, tutti avrebbero la loro istruzione e l’intero sistema scolastico potrebbe benissimo essere privatizzato. Scuole paritarie, in competizione fra loro, farebbero a gara a offrire i servizi migliori per conquistarsi un maggior prestigio. La stessa logica può essere applicata ad ognuno degli altri servizi essenziali.
Il problema, dunque, non è di ricchi e poveri o pubblico e privato, ma di chi controlla i servizi. I sindacati e la sinistra parlamentare sono molto bravi a mantenervi una presa monopolista, ammantandosi di “equità”.