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morte negli abissi

Titan: un'impresa sconsiderata frutto della temerarietà

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Il tragico epilogo dell'immersione a bordo del sommergibile chiama in causa il confine tra spendersi legittimamente in una passione, anche pericolosa (tanti sport, anche non estremi, in fondo lo sono) e l'immorale corsa al rischio.

Attualità 23_06_2023

Parliamo del sommergibile Titan e di alcune domande che questa vicenda, conclusasi tragicamente, suscita: qual è il confine tra spendersi legittimamente in una passione, anche pericolosa (tanti sport, anche non estremi, in fondo lo sono) e l'immorale corsa al rischio? Quale il confine tra il pioniere o l'esploratore e l'irresponsabile che gioca con la vita? Come al solito, la prenderemo larga.

Come non manca di sottolineare il giornalista cattolico Vittorio Messori, una caratteristica del cattolicesimo è l’et-et. Lo testimonia, ad esempio, la definizione tomista di verità: adaequatio rei et intellectus, cioè corrispondenza tra realtà e intelletto; non corrispondenza dell’intelletto alla realtà (materialismo) oppure della realtà all’intelletto (idealismo). Ogni volta che questo equilibrio si spezza, il pensiero scivola verso un estremo o l’altro. Allo stesso modo, la virtù è il giusto mezzo tra due estremi, cioè i vizi. La nostra società ama gli estremi e, spesso, in modo dicotomico, considera solo quelli ignorando il giusto mezzo. Ad esempio: «Tu sei per l’accanimento terapeutico o per l’eutanasia?» Per nessuno dei due: tra i due estremi (entrambi vizi) c’è una infinita gamma di possibilità che, tuttavia, nessuno considera. Questo vale anche per la vita umana e la salute corporea.

Perso l’equilibrio virtuoso nei confronti di questi concetti, la nostra società tende a scivolare verso l’assolutizzazione della vita terrena e del corpo; dimenticando che la vita e il corpo non son un fine, ma un mezzo per raggiungere la vita eterna. San Tommaso addita questo atteggiamento come un vizio: è la prudenza della carne. Consiste nell’essere prudenti, ma… per il bene del corpo, e non dell’anima. Chi non fa attività sportiva per paura di farsi del male; chi non difende l’innocente o il debole per paura di essere ferito; chi preserva in modo eccessivo il proprio corpo, invece di usarlo per compiere il bene, coltiva questo vizio contrario alla vera prudenza. Preserviamo il nostro corpo… per cosa? Un vero e proprio atto di ribellione alla prudenza della carne è contenuto in un discorso che il protagonista del film Braveheart (Mel Gibson, 1995) pronuncia sul campo di battaglia: «Certo, chi combatte può morire, chi fugge resta vivo, almeno per un pò... Agonizzanti in un letto fra molti anni da adesso, siete sicuri che non sognerete di barattare tutti i giorni che avrete vissuto a partire da oggi, per avere l'occasione, solo un'altra occasione di tornare qui sul campo ad urlare ai nostri nemici che possono toglierci la vita, ma non ci toglieranno mai la libertà?».

Così il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Se la morale richiama al rispetto della vita corporea, non ne fa tuttavia un valore assoluto. Essa si oppone ad una concezione neo-pagana, che tende a promuovere il culto del corpo, a sacrificargli tutto, a idolatrare la perfezione fisica e il successo sportivo» (§ 2289). Il corpo e la salute vanno, invece, consumati nello sforzo di conquistare il Paradiso. Come dice un proverbio polacco: «È un peccato mettere nella bara degli organi sani»! Certo, ma per un fine che sia buono e importante (e la vita eterna lo è certamente).

L’alternativa moderna alla prudenza della carne non è la virtù, ma un altro vizio: la temerarietà. La temerarietà consiste nel gettarsi a capofitto in una impresa senza valutare bene i reali rischi che essa comporta. Il vizio, in questo caso, non consiste nel considerare un bene assoluto vita e salute ma, al contrario, nel considerarli con leggerezza. Vista l’importanza del fine per cui ci sono stati dati, essi vanno considerati un bene prezioso, da spendere ma in modo oculato; non gettati via in modo sconsiderato. In questo caso, il criterio è la proporzione tra i rischi e il fine. Infatti, «La legge morale vieta tanto di esporre qualcuno ad un rischio mortale senza grave motivo» (CCC, § 2269).

Per carità, gli incidenti (anche mortali) capitano; ma sono imprevisti; oppure sono previsti, ma si sono prese tutte le precauzioni possibili per evitarli e tutte le possibili vie d’uscita. Così ci si comporta nello sport o nelle esplorazioni. Chi pratica uno sport potenzialmente rischioso come l’alpinismo senza l’attrezzatura idonea, senza avvertire dell’escursione e senza dotarsi di dispositivi di sicurezza è uno sconsiderato e si comporta in modo moralmente inaccettabile; anche perché gli eventuali soccorritori rischierebbero la vita per trarlo d’impaccio.

Torniamo dunque al Titan: in questa tragica vicenda sono mancati entrambi i criteri di cui sopra. Non c’era un fine talmente importante (salvare vite umane, compiere indagini ed esplorazioni scientifiche…) per inabissarsi con quel sottomarino; quanto motivi che appaiono, per quanto ne sappiamo, abbastanza futili: vedere da vicino il relitto del Titanic, avere qualcosa di unico da raccontare agli amici, vivere un’esperienza limite…

È mancata anche – sempre per quel che ne sappiamo – una attenta considerazione dei rischi: queste persone si sono immerse a una profondità di quattromila metri con un mezzo progettato per milletrecento; senza alcuna certificazione di sicurezza o idoneità; e con precedenti problemi di affidabilità.

Nonostante lo sconcerto per la tragedia, quindi, dobbiamo concludere che si è trattato di una impresa sconsiderata e moralmente non accettabile.