Tentativi di pace, dopo le violenze di fine Ramadan
La Spianata delle moschee, nell'ultimo venerdì di Ramadan, è tornata ad essere il luogo di scontro tra musulmani ed ebrei. «È fondamentale che i soldati israeliani depongano le armi e che i palestinesi interrompano le azioni terroristiche», dice mons. William H. Shomali, vicario del Patriarcato di Gerusalemme.
La Spianata delle moschee, nell'ultimo venerdì di Ramadan, è tornata ad essere il luogo di scontro tra musulmani ed ebrei. Centinaia di giovani palestinesi, sin dalle prime ore dell'alba, hanno fatto esplodere fuochi d'artificio e lanciato sassi verso il Muro del Pianto e il Ponte Mughrabi, la struttura in legno che collega la zona antistante il Muro Occidentale e la stessa Spianata. La risposta della polizia non si è fatta attendere, entrata nel complesso religioso islamico, per la prima volta durante questa settimana, si è fatta strada con gas lacrimogeni e proiettili con la punta di gomma per controllare i rivoltosi. Secondo la Mezzaluna Rossa, molte persone sono rimaste ferite e trasportate in ospedale. Numerosi gli arresti.
Già durante la notte, poliziotti e truppe speciali, si parla di tremila uomini, erano schierati nella città vecchia, e in modo particolare, nelle vicinanze delle entrate alla moschea di al-Aqsa. Nonostante le sommosse, i responsabili della sicurezza hanno stimato in oltre 100mila i fedeli che hanno seguito la preghiera dell'ultimo giorno di Ramadam.
La tensione non si è fermata a Gerusalemme Est, ma si è diffusa in tutta la Cisgiordania, con arresti e feriti. Le squadre speciali israeliane dell'Unità 217, conosciuta con il nome di Dundevan, i cui agenti agiscono sotto copertura, indossando abiti arabi e utilizzando auto con targa palestinese, sono entrate nel villaggio di Qabatiya, a pochi chilometri a sud di Jenin, perquisendo numerose abitazioni. Anche nel campo di Aqabat Jabr, a Gerico, i soldati hanno setacciato le abitazioni eseguendo arresti. Violenta la reazione degli abitanti in entrambi i villaggi, e pronta la risposta dei soldati che hanno utilizzato proiettili veri e di gomma. «La situazione è veramente al limite - dichiara mons. William Hanna Shomali, vicario del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini per Gerusalemme e la Palestina - questo clima rischia di degenerare e le conseguenze, nelle prossime settimane, potranno essere anche molto serie. La violenza tra palestinesi e israeliani deve assolutamente terminare».
Infatti, c'era molta preoccupazione per l'ultimo giorno di Ramadan, il mese in cui i musulmani praticano il digiuno per ricordare la rivelazione del Corano a Maometto. La decisione delle forze di sicurezza di aumentare i controlli, molto minuziosi, è stata anche una delle cause che ha provocato questi ultimi disordini. Veniva controllata l’identità di quanti entravano nella Spianata del Tempio, per recarsi a pregare nella moschea di al-Aqsa, violando, in tal modo, il diritto alla libertà di culto, e sicuramente tutto ciò ha esasperato gli animi. Questi provvedimenti non fanno altro che fomentare la tensione. Il gruppo di Hamas, nel frattempo, ha assunto il controllo della protesta in tutto il territorio israeliano. E il lancio di missili da Gaza ne è la prova evidente.
Il re di Giordania, Abdullah II, che è il custode della Spianata del Tempio, teatro degli scontri in questo ultimo mese, nel frattempo, ha avuto un lungo colloquio con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Nel corso della conversazione si è sottolineata l'importanza di non lasciare nulla di intentato per prevenire il ripetersi di attacchi a Gerusalemme Est e, in particolare, alla moschea di al-Aqsa, che comprometterebbero le possibilità di mantenere la pace e spingerebbero a un ulteriore peggioramento del clima di tensione. Il re giordano ha sottolineato la necessità di rispettare lo status quo del Monte del Tempio, ribadendo che il suo paese continuerà a proteggere i luoghi santi islamici e cristiani di Gerusalemme Est. Israele, infatti, che ha firmato il trattato di pace con la Giordania nel 1994, riconosce la supervisione e la custodia del Regno hascemita sui luoghi santi islamici di Gerusalemme e di altre città della Cisgiordania. La Giordania ne esercitava la sovranità, prima che Israele occupasse, nel 1967, quei territori.
«È fondamentale che i soldati israeliani depongano le armi e che i palestinesi interrompano le azioni terroristiche - prosegue mons. Shomali -. Non è possibile che l'esercito e le forze speciali israeliane continuino con le azioni repressive, contro i familiari dei palestinesi arrestati. La vendetta chiama vendetta, e questo va assolutamente condannato. Non è, poi, ammissibile che si impedisca l’accesso ai luoghi santi a coloro che vi si recano per pregare. Cristiani, musulmani ed ebrei devono poter liberamente pregare. Nessuno escluso».
Che il governo israeliano sia intenzionato a rispettare la libertà di culto è stato ribadito, recentemente, dal ministro della Difesa, Benny Gantz. Partecipando ad una cena Iftar, il pasto serale che interrompe il digiuno quotidiano durante il Ramadan, con gli ambasciatori di Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti, firmatari degli "Accordi di Abramo", ha dichiarato che «Israele sta adottando tutte le misure necessarie per garantire la libertà di culto, nonostante le pressioni di una minoranza estremista ebraica che sta tentando di deteriorare i rapporti con i palestinesi». I rappresentanti di quest’ultimi non sono stati inviati all’incontro avendo manifestato la loro contrarietà a questi accordi.
Sempre in questa occasione, il ministro Gantz ha annunciato che il valico di Erez, tra Israele e la Striscia di Gaza, verrà riaperto per dare la possibilità a circa dodicimila lavoratori e commercianti palestinesi di entrare in territorio israeliano. «Continueremo a dimostrare la nostra disponibilità al dialogo, solo se sarà garantita sicurezza e stabilità. Le organizzazioni terroristiche - ha affermato Gantz - dovrebbero considerare che la popolazione sta subendo le conseguenze di una situazione economica critica e che certamente le tensioni non favoriscono stabilità e prosperità». Negli ultimi mesi, migliaia di lavoratori provenienti da Gaza hanno iniziato a lavorare in Israele con uno stipendio mensile di 300-600 shekel, corrispondenti a 170 euro, contro una media di 60 (17 euro) della Striscia di Gaza.
«Il governo israeliano - sottolinea mons. Shomali - è convinto che un modo per fermare il terrorismo è offrire lavoro ai palestinesi. La stabilità economica, infatti, può essere uno dei tanti mezzi per avere la pace tra i due popoli».