APPROPRIAZIONE INDEBITA
Suicidio, a Dio l'ultima parola
Cosa dire di fronte ai gesti estremi?
(da Oggi, 9 dicembre 2010)
Appropriazione indebita
09_12_2010
Un suicidio è sempre un grande enigma che si pone dinanzi alla mente di chi lo compie, come di quanti rimangono e sono chiamati a rispondere all’interrogativo: «Perché?». Ho visto genitori completamente distrutti; sorgono interrogativi tremendi, e nella sofferenza si innesta il senso di colpa per non avere fatto quanto possibile. Insomma, il suicidio è sempre un dramma, una ferita che fatica a rimarginarsi. E la domanda sul perché si fa ancor più urgente quando a compiere il gesto estremo è una persona pubblica, famosa.
Dal momento che viviamo in un mondo che non sempre riesce a nascondere i suoi tratti peggiori - e tra questi uno è certamente l’abbandono nella solitudine - immagino che per una persona pubblica e ricercata fino a quando esercita «potere», diventi insopportabile vivere senza più qualcuno che si ricordi di te. Pensi che ti hanno usato, che l’amicizia e la vicinanza che ti veniva manifestata era solo apparenza e finzione. Ora che non «conti» più nulla, sei lasciato solo al tuo destino. C’è chi è in grado di farsene una ragione e chi, invece, non lo sopporta. In questi casi, la mente nella sua enigmaticità corre verso pensieri e gesti che sfuggono alla logica e percorre altri sentieri per noi indecifrabili, eppure drammaticamente reali.
Di fronte al suicidio mi ha sempre colpito un’espressione che il filosofo Kierkegaard annotava nei suoi Diari: «Anche il suicida quando compie questo gesto lo fa perché spera in un mondo migliore». Alla fine, ciò che rimane come una sottile forma di consolazione è pensare che l’atto compiuto sia il desiderio di aggrapparsi a una speranza più grande che non è stato possibile trovare in questo mondo. La speranza si accompagna sempre alla fede e le dà il suo senso pieno. Personalmente, purtroppo, ho sperimentato diverse volte casi di suicidio. È difficile trovare le parole giuste; eppure, da te vogliono una risposta che spesso non sai dare. Rimane forte l’unica parola che ha un valore profondo: il silenzio. Questo non è determinato dal non avere parole per consolare; ritengo, al contrario, che sia la risposta più coerente per condividere il dolore, la sofferenza e il limite dell’esistenza. Non a tutto si può rispondere con le ragioni della mente e dell’intelligenza; deve venire anche il momento in cui le ragioni del cuore possono esprimersi con maggior efficacia e, probabilmente, con più forza di convinzione.
Ciò che permane come un imperativo, comunque, è il rispetto di chi non giudica. Nessuno di noi può entrare nella mente di chi cerca la morte e, pertanto, l’ultima parola spetta a Dio che tutto comprende e tutti abbraccia, in modo particolare quanti si sentono soli e privi di amore umano.
(da Oggi, 9 dicembre 2010, www.oggi.it)
Dal momento che viviamo in un mondo che non sempre riesce a nascondere i suoi tratti peggiori - e tra questi uno è certamente l’abbandono nella solitudine - immagino che per una persona pubblica e ricercata fino a quando esercita «potere», diventi insopportabile vivere senza più qualcuno che si ricordi di te. Pensi che ti hanno usato, che l’amicizia e la vicinanza che ti veniva manifestata era solo apparenza e finzione. Ora che non «conti» più nulla, sei lasciato solo al tuo destino. C’è chi è in grado di farsene una ragione e chi, invece, non lo sopporta. In questi casi, la mente nella sua enigmaticità corre verso pensieri e gesti che sfuggono alla logica e percorre altri sentieri per noi indecifrabili, eppure drammaticamente reali.
Di fronte al suicidio mi ha sempre colpito un’espressione che il filosofo Kierkegaard annotava nei suoi Diari: «Anche il suicida quando compie questo gesto lo fa perché spera in un mondo migliore». Alla fine, ciò che rimane come una sottile forma di consolazione è pensare che l’atto compiuto sia il desiderio di aggrapparsi a una speranza più grande che non è stato possibile trovare in questo mondo. La speranza si accompagna sempre alla fede e le dà il suo senso pieno. Personalmente, purtroppo, ho sperimentato diverse volte casi di suicidio. È difficile trovare le parole giuste; eppure, da te vogliono una risposta che spesso non sai dare. Rimane forte l’unica parola che ha un valore profondo: il silenzio. Questo non è determinato dal non avere parole per consolare; ritengo, al contrario, che sia la risposta più coerente per condividere il dolore, la sofferenza e il limite dell’esistenza. Non a tutto si può rispondere con le ragioni della mente e dell’intelligenza; deve venire anche il momento in cui le ragioni del cuore possono esprimersi con maggior efficacia e, probabilmente, con più forza di convinzione.
Ciò che permane come un imperativo, comunque, è il rispetto di chi non giudica. Nessuno di noi può entrare nella mente di chi cerca la morte e, pertanto, l’ultima parola spetta a Dio che tutto comprende e tutti abbraccia, in modo particolare quanti si sentono soli e privi di amore umano.
(da Oggi, 9 dicembre 2010, www.oggi.it)