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AFRICA

Sudan verso la divisione, c'è l'incognita islamista

Il 9 gennaio, con un referendum, il Sud Sudan deciderà se continuare a far parte del paese. Retroscena e scenari possibili.

Attualità 05_01_2011
MAPPA SUDAN
In Africa il 2011 si apre con un evento di portata continentale e storica: il referendum del 9 gennaio con cui il Sud Sudan deciderà se continuare a far parte del paese, nell’attuale regime di semi-autonomia, oppure dar vita a un’entità politica del tutto autonoma. Sei anni fa, nel 2005, il consenso del governo di Khartoum all’autodeterminazione delle popolazioni meridionali è stato uno dei punti fondanti dell’accordo di pace con cui si è conclusa la guerra tra Nord e Sud, uno dei più lunghi e cruenti conflitti civili africani, iniziato nel 1956 all’indomani dell’indipendenza dalla Gran Bretagna.

Lo scontro, religioso oltre che tribale poiché il Nord è musulmano e il Sud è in prevalenza cristiano, si era aggravato nel 1983 con l’ascesa al potere di un governo islamico, che aveva imposto la legge coranica anche alle popolazioni animiste e cristiane, e con la nascita al Sud dell’Spla, Sudan People Liberation Army, il movimento armato indipendentista poi ribattezzato Splm a cui, con gli accordi di pace, è stato affidato il governo dei territori meridionali.

Ma il peggio è iniziato nel 1989 quando l’attuale presidente, Omar Hassan el Bashir, ha preso il potere con un colpo di stato e ha avviato un processo di arabizzazione che nel Sud è costato la vita a circa due milioni di persone, in gran parte morte di fame nei periodi in cui el Bashir negava l’apertura di corridoi umanitari per prestar loro soccorso, e ne ha costrette all’esodo il doppio. Per 15 anni truppe governative e ribelli hanno ridotto in macerie città e villaggi, razziato raccolti, beni e mandrie, sterminando gli uomini adulti e impadronendosi di donne e bambini. Quelli catturati dall’esercito di Khartoum venivano trasferiti al nord e venduti come schiavi, l’Spla reclutava gli altri come combattenti.

Con la scoperta dei giacimenti di petrolio situati nel sud e nel centro del paese, il controllo delle regioni meridionali ha assunto ulteriore importanza per el Bashir e per l’Splm. Ci sono voluti anni di trattative, con la mediazione internazionale, perché si raggiungesse un’intesa sulla spartizione dei proventi del petrolio che tuttavia neanche la pace del 2005 ha del tutto definito. Ora per Khartoum si prospetta una perdita enorme di risorse, poiché è prevedibile la vittoria del si alla secessione, e il mondo si domanda se sarà disposto ad accettarla.
Se anche così fosse, ed el Bashir se ne proclama garante, resterebbe da affrontare la questione tutt’altro che semplice di Abyei, la regione centrale ricchissima di giacimenti di cui un altro referendum avrebbe dovuto decidere la collocazione, nel Nord o nel Sud, ma che per ora è stato impossibile organizzare.

Petrolio a parte, il processo di arabizzazione avviato dalla leadership sudanese in questi decenni è stato devastante non soltanto per i cristiani. Nel Darfur, una regione occidentale costituita da tre stati popolati da etnie di religione islamica, ha portato al conflitto tuttora irrisolto esploso nel 2003 quando Khartoum ha deciso di armare le tribù di origine araba contro quelle africane. Qui i morti si contano a decine, forse a centinaia di migliaia e due milioni di persone, un terzo degli abitanti della regione, si sono dati alla fuga cercando scampo e salvezza nei campi per profughi allestiti nel paese e nel vicino Ciad.

Per le stragi e le violenze compiute in Darfur la Corte Penale Internazionale due anni fa ha accusato il presidente el Bashir di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità e ha spiccato contro di lui un peraltro inutile mandato di cattura internazionale che, anzi, ha indignato mezzo mondo e in particolare l’Unione Africana. In realtà a quelle per il Darfur andrebbero piuttosto aggiunte le responsabilità di el Bashir per il massacro dei Nuba del Sud Kordofan, anch’essi minacciati dalle etnie di origine araba.

Oggi, a distanza di sei anni dalla fine della guerra, il 90% della popolazione meridionale del Sudan vive con meno di un dollaro al giorno e l’85% è analfabeta. Bastano questi dati per capire l’enormità dei problemi che il nuovo stato, se mai nascerà, dovrà affrontare. Prima ancora, sono dati che spiegano le perplessità di chi si domanda se sia possibile che una consultazione, in queste condizioni, traduca realmente le intenzioni di chi vi partecipa. D’altra parte il fatto che però si sia iscritto alle liste elettorali il 96% degli aventi diritto fa sperare in un voto motivato e consapevole.

Come si è detto il referendum è un evento di portata storica e continentale. Quasi sicuramente segna la nascita di un nuovo stato, in realtà di due perché il Sudan del nord può assumere un assetto molto diverso dall’attuale con la secessione: ad esempio, se si accentua la forza della sua componente islamica fondamentalista. Non si dimentichi che fino al 1996 il governo filo iraniano di el Bashir ospitava Osama bin Laden e le sue scuole di addestramento al terrorismo. Ne risentirebbero gli equilibri dell’intera regione del Corno d’Africa dove l’islam fondamentalista gioca da anni una partita importante.

Inoltre la portata storica del referendum va considerata in relazione ad altre rivendicazioni secessioniste avanzate nel continente africano: dalla Casamance in Senegal alla Kabinda in Angola. Il precedente dell’Eritrea, indipendente dall’Etiopia dal 1993 grazie a un referendum popolare, e dopo una lotta armata durata 30 anni, non è esaltante. Per gli eritrei il prezzo della secessione è una dittatura, quella di Isaias Afewerki, considerata tra le peggiori del pianeta.