Sudan: per la guerra civile, anche i missionari costretti ad andarsene
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Nella guerra civile fra gli ex alleati militari al-Burhan e Dagalo, nessuna città è risparmiata. Gli aiuti hanno difficoltà ad entrare nel paese e sono soprattutto i cristiani che si prodigano nell'assistenza. Finché è possibile.
In Sudan due generali, il capo dello Stato Abdel Fattah al-Burhan e il suo vice Mohamed Hamdan Dagalo, alleati all’epoca del golpe con cui presero il potere nel 2019, ma rivali in guerra dall’aprile 2023 per il controllo totale del paese, hanno provocato una emergenza umanitaria totale, una delle peggiori della storia recente, e la più grande crisi alimentare del pianeta. I loro due eserciti, quello governativo (Saf) agli ordini di al-Burhan e quello paramilitare (Rsf) fedele a Dagalo, hanno il mandato di combattere senza riguardo alcuno per i civili.
Entrambi i generali usano anzi fame e stenti come ulteriori armi contro gli abitanti dei territori in mano agli avversari e assicurano l’impunità ai loro soldati che commettono crimini di guerra atroci. Nella provincia occidentale del Darfur, inoltre, l’inasprirsi di endemiche conflittualità etniche ha ripiombato la regione nell’incubo della pulizia etnica. Diversi tentativi di riunire i contendenti attorno a un tavolo negoziale finora sono falliti. L’ultima iniziativa è degli Stati Uniti che vorrebbero avviare colloqui tra le parti a Ginevra il 14 agosto. Sembra che sia le Rsf che le Saf abbiano in linea di principio acconsentito, ma al-Buhan, dopo il fallito attentato subito il 31 luglio, ha dichiarato “non ci ritireremo, non ci arrenderemo e non negozieremo con nessuna entità”. Inoltre pesa sui colloqui l’esclusione di altri protagonisti minori del conflitto come Mini Minnawi, il leader del Movimento di Liberazione del Sudan.
Intanto ogni giorno di combattimento aggrava la crisi umanitaria. I numeri ne dimostrano la crescente portata: su 50 milioni di abitanti, 10,7 milioni di profughi, milioni di persone che patiscono carenze alimentari estreme, al limite della carestia che tra un mese potrebbe colpire il 70% della popolazione, 15 milioni di persone con urgente bisogno di assistenza sanitaria mentre appena un quarto delle strutture sanitarie è operativo nelle aree colpite dalla guerra e l’intero sistema sanitario è prossimo al collasso.
Con gran parte degli aiuti internazionali bloccati ai confini, quelli autorizzati difficili da portare a destinazione a causa di problemi logistici, di sicurezza e burocratici, e spesso sequestrati poi dai combattenti, e con i corridori umanitari negati, persino quando si tratta di mettere in salvo dei bambini, molti sudanesi devono la loro sopravvivenza ai volontari locali, al loro coraggio, alla loro determinazione. Un ruolo notevole lo hanno svolto finora le comunità religiose cattoliche ancora presenti nel paese anche se, dopo la secessione del sud cristiano nel 2011, più del 90% della popolazione è musulmana e i cristiani ormai rappresentano una minoranza pari a circa il 5%. Resistendo alle pressioni a lasciare il paese, alle minacce, ai pericoli, la maggior parte dei religiosi, dei missionari, delle suore sono rimasti insieme alla gente alla quale hanno scelto di dedicare la vita. Ma alla fine molti sono stati costretti, malgrado loro, a darsi per vinti e ad abbandonare le loro strutture – chiese, ambulatori, scuole, asili – a causa dell’estendersi del conflitto. Insieme alla popolazione di cui si sono presi cura finché è stato possibile se ne sono andati in cerca di salvezza. Adesso sono anche loro profughi.
«Siamo in una situazione disperata – dice padre Biong Kwol Deng, il segretario generale aggiunto della Conferenza episcopale di Sudan e Sudan del Sud intervistato dall’agenzia di stampa Fides – in molti abbiamo dovuto lasciare i luoghi dove eravamo in Sudan perché sono diventati troppo pericolosi. Non c’è più angolo del paese che non sia interessato dal conflitto, ci sono combattimenti continuamente e ovunque. Al momento, sono sincero, non si intravvede alcuna speranza».
Padre Biong si è da poco trasferito nel vicino Sudan del Sud, nella capitale Giuba. Potrebbero raggiungerlo presto le Missionarie della Carità (le suore di Madre Teresa) e le suore del Sacro Cuore che hanno resistito nella diocesi di El Obeid, nello stato centrale del Kordofan, fino a luglio, ma adesso si sono trasferite a Kosti, alcune centinaia di chilometri più a est e non sanno fino a quando saranno al sicuro lì. Anche i padri comboniani della diocesi di El Obeid hanno da poco seguito il loro esempio e stanno per trasferirsi a Giuba.
Sia nel Sudan del Sud che nel Kordofan, la vasta regione sudanese che confina con il Sudan del Sud, i religiosi, non appena recuperano le forze e riescono a riorganizzarsi, riprendono la loro missione di cura pastorale e assistenza, questa volta ai milioni di profughi e rifugiati. «Al momento la situazione degli sfollati è spaventosa, aggravata dall’inizio della stagione delle piogge – racconta padre Biong – sono tantissimi, cerchiamo di soccorrerli. La gente necessita di tutto: acqua, cibo, medicine, manca di tutto».
Quasi altrettanto difficili sono le condizioni dei rifugiati: 2,3 milioni circa divisi tra Sudan del Sud, Ciad, Egitto ed Etiopia. In Sudan del Sud molti sono “returnees” cristiani. «Sono cioè – spiega padre Biong – ex cittadini sud sudanesi che avevano lasciato il paese per problemi di povertà estrema, alluvioni o conflitto e che ora sono costretti a farvi ritorno». La loro è forse la condizione più disperata. Le popolazioni dell’attuale Sudan del Sud, quando i loro territori facevano parte del Sudan, hanno subito per decenni la violenza genocida della leadership arabo islamica. Nel 2011 avevano confidato che l’indipendenza mettesse fine alle loro sofferenze e invece, soltanto due anni dopo, lo scontro degenerato in guerra tra i leader delle due maggiori etnie, i Dinka e i Nuer, per il controllo del paese ha messo fine alle loro speranze al punto da indurre molti a cercare sicurezza e di che vivere proprio nel Sudan dal quale con un referendum avevano scelto di separarsi. Ma la guerra ancora una volta li ha raggiunti.