Sudan, il calvario di Meriam continua
Dopo meno di un giorno di esultanza per la notizia della liberazione di Meriam, è arrivata la nuova doccia fredda: la donna cristiana, che ha appena dato alla luce una figlia, è stata di nuovo arrestata mentre si apprestava ad espatriare. Sposata con un cristiano, è condannata a 100 frustate e a morte per apostasia e adulterio.
È durata poche ore l’esultanza per la liberazione, avvenuta il 23 giugno, di Meriam Yahia Ibrahim Ishag, la donna cristiana di 27 anni condannata a morte in Sudan per apostasia. Mentre il giorno successivo al rilascio, si trovava, con il marito e i due figli, presso l’aeroporto internazionale di Khartoum in attesa di salire su un aereo diretto alla volta degli Stati Uniti, è stata arrestata da 40 agenti del Niss, il Servizio nazionale di intelligence e sicurezza, e portata insieme ai famigliari nella sede centrale dell’agenzia.
In carcere da febbraio, dopo essere stata denunciata da un fratello, Meriam era stata giudicata colpevole di apostasia per il fatto di dichiararsi cristiana pur essendo figlia di un musulmano. Oltre alla pena di morte, era stata condannata a 100 frustate per aver avuto rapporti sessuali illeciti, in quanto il suo matrimonio con un cristiano, secondo la legge islamica in vigore in Sudan, non è valido. Entrambe le pene erano state differite poiché era incinta.
Meriam, già madre di un bambino, ha dato alla luce una bimba, Maya, alcune settimane fa, in carcere: l’attendevano quindi le 100 frustate e, tra due anni, il tempo di svezzare sua figlia, l’esecuzione capitale.
Invece il 23 giugno la Corte d’appello, esaminato il ricorso presentato dai suoi legali, ha dichiarato nulla la sentenza precedente con motivazioni di carattere giuridico e Meriam è stata subito rilasciata. Il suo calvario sembrava finito: un risultato ottenuto grazie alle pressioni internazionali sul governo sudanese, in particolare l’interessamento degli Stati Uniti direttamente coinvolti perché il marito di Meriam, Daniel Wani, è cittadino statunitense. Quest’ultimo, nel commentare la notizia, aveva annunciato l’intenzione di lasciare quanto prima il paese per andare a vivere negli Stati Uniti. Nelle ore successive alla liberazione, la famiglia si era riunita in un imprecisato luogo sicuro in attesa del nulla osta per espatriare, ottenuto il quale si era affrettata a recarsi in aeroporto.
Può darsi, come sostengono alcune fonti, che l’arresto sia dovuto al fatto che Meriam non è stata in grado di esibire alle autorità aeroportuali tutti documenti attestanti la sentenza della Corte d’appello. In tal caso potrebbe essere rilasciata in breve tempo, una volta chiarita la sua posizione, e autorizzata a partire.
Può darsi invece che la mancanza dei documenti richiesti sia solo un pretesto e che l’intervento del Niss riveli uno scontro interno al governo del Sudan. Il Niss è un’agenzia potentissima che spesso interviene nelle vicende politiche del paese. E’ molto probabile che non abbia approvato la liberazione di Meriam disposta dai giudici, senza dubbio sotto l’influenza di pressioni da parte del governo, a sua volta però forse diviso in merito. La decisione del Niss di arrestarla e impedirle di lasciare il paese rispecchierebbe allora la posizione contraria dei vertici dell’agenzia e costituirebbe un segnale per le componenti del governo sudanese, accusate di aver ceduto alle richieste degli Stati Uniti. Siccome poi all’interno del Niss si scontrano correnti diverse, non è escluso che a ordinare l’arresto sia stata una della componenti dell’agenzia stessa.
In attesa di notizie che si sperano rassicuranti, l’eventualità che Meriam e la sua famiglia siano vittime di una prova di forza tra diversi organi governativi, in un paese in cui è in atto uno duro scontro politico, è senza dubbio la peggiore.