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AFRICA

Sud Sudan: un rimedio non un successo

Il Sudan sarà diviso in due. Il 98,83% dei sud sudanesi ha scelto la secessione da Khartum. Ma i problemi non sono finiti.

Attualità 08_02_2011
sudan diviso Il Sudan sarà diviso in due. Il 98,83% dei sud sudanesi ha scelto la secessione da Khartoum: è questo l’esito, ampiamente previsto, del referendum svoltosi dal 9 al 15 gennaio.

La consultazione costituiva uno dei punti fondamentali dell’accordo di pace del 2005 con cui si è conclusa la guerra che per decenni ha contrapposto le etnie cristiane e animiste del sud e quelle islamiche del nord provocando al sud più di due milioni di morti tra i civili e oltre quattro milioni di profughi. Il conflitto, iniziato all’indomani dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, nel 1956, si era intensificato nel 1983, con l’imposizione della legge coranica a tutto il paese, e ancora nel 1989, con il colpo di stato dell’attuale presidente Omar Hassan al Bashir che aveva avviato un processo di arabizzazione di cui stanno facendo le spese anche le popolazioni islamiche, ma di origine africana del Darfur. La scoperta dei giacimenti di petrolio in gran parte concentrati nelle regioni centrali e meridionali aveva poi aggiunto un ulteriore motivo di scontro tra il governo centrale e i leader del sud.

Il presidente al Bashir ha preso la parola il 7 febbraio, subito dopo l’annuncio dei risultati, confermando di accettare la volontà popolare e impegnandosi a favorire buoni rapporti e collaborazione tra i due nuovi stati. Intanto Salva Kiir Mayardit, finora vice di el Bashir e presidente del sud semiautonomo in qualità di capo dello storico movimento indipendentista Spla, decideva la costituzione di un comitato incaricato di organizzare le celebrazioni per l’indipendenza che verrà ufficialmente proclamata il prossimo 9 luglio.

Il sollievo del sud finalmente liberato dalla minaccia di un governo spietato non può far dimenticare che la secessione, più che una conquista di cui compiacersi, è da considerarsi un rimedio, deciso prendendo atto di una situazione purtroppo insostenibile. Non c’è da rallegrarsi infatti se appartenenza etnica e fede religiosa diverse esasperano i rapporti al punto da rendere impossibile la convivenza di popolazioni accomunate dall’urgenza di sconfiggere la povertà e che potrebbero riuscirci approfittando delle immense risorse naturali a disposizione.

Ora il nord perde una parte cospicua dei propri introiti e già se ne avvertono le ripercussioni. Il governo di Khartoum ha varato un piano di austerità che include tagli ai sussidi statali in seguito ai quali si sono avuti rialzi dei prezzi dei generi alimentari di largo consumo. Dal 27 gennaio nelle principali città del nord si tengono manifestazioni antigovernative quasi quotidiane, il 31 si sono verificati i primi scontri tra dimostranti e polizia, il 2 febbraio sono scesi per le strade gli studenti universitari di Khartoum.

Il Sud a sua volta dovrà fare i conti con la propria dipendenza dagli oleodotti che portano i greggio al nord, alle raffinerie e a Port Said, per essere esportato. Inoltre la guerra lo ha ridotto in macerie e manca di tutto: strade, ferrovie, scuole, ospedali. In queste condizioni deve far fronte alle necessità di centinaia di migliaia di profughi deportati o emigrati al nord nei decenni passati e che tornano a casa temendo di rimanere intrappolati in un territorio ostile e ormai straniero, dal momento che non verrà concessa a nessuno la doppia cittadinanza. Già sono arrivati a Juba, la capitale del Sud, 4.000 studenti universitari, ma il nuovo stato dispone al momento soltanto di tre atenei.

Nei prossimi mesi dovrà poi essere decisa l’attribuzione a uno dei due stati della regione centrale di Abyei: un problema non da poco e difatti per ora rimandato, mentre avrebbe dovuto essere risolto con un secondo referendum, inizialmente previsto in concomitanza con quello sulla secessione. Le difficoltà nascono dal fatto che Abyei è anch’essa molto ricca di petrolio, e quindi ambita. Per di più, come il Darfur, è abitata da etnie sia arabe che africane, dedite alla pastorizia e in conflitto per il controllo dei pascoli e delle sorgenti, soprattutto al sopraggiungere della stagione secca. Mentre a pochi chilometri di distanza i loro connazionali facevano la fila ai seggi, in attesa di votare, gruppi di Massiriya e di Dinka combattevano per assicurare cibo e acqua al loro bestiame, malgrado gli accordi appena stipulati.