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Street art, il "buon selvaggio" con la bomboletta spray

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Ormai sdoganata persino dalla critica, la cosiddetta "arte di strada" invade i resti di un passato che con le sue stesse forme parlava di equilibrio, armonia, razionalità. Ennesima variante della "cancel culture".

Cultura 06_09_2024
UFFICIO IMAGOECONOMICA

Letteralmente "street art" significa "arte di strada". Nell'accezione comune questo epiteto ("di strada") ha una connotazione diminutiva o addirittura infamante. A tal proposito sì pensi ai termini: "cibo di strada ", "ragazzo di strada" e "donna di strada": in sostanza il termine evoca un mondo senza casa, privo della cura che si mette nell'abitare un luogo, perso nel viavai del traffico o dello scorrere della gente, frettoloso e spesso connotato da una sfumatura di devianza e illegalità.

Innanzitutto poniamo un postulato iniziale: la  "street art" non esiste. Esiste soltanto buona o cattiva pittura murale. La prima caratteristica che gran parte della critica attribuisce all'"arte di strada" consiste nell'essere eseguita in luoghi pubblici. Riguardo a ciò è opportuno osservare che da millenni gli uomini dipingono le pareti esterne degli edifici, affacciate su spazi pubblici, e questa non è certo una trovata moderna («niente di nuovo sotto il sole», direbbe il Qoelet). Basta affacciarsi in Piazza Santa Croce a Firenze o in quasi tutti i piccoli borghi del Veneto montano, passando per la Riviera ligure, per accorgersi di quanto fosse diffusa la pittura delle facciate, sia con elementi geometrici che con temi vegetali, zoomorfi o con il sapiente utilizzo di  figure umane, il tutto armonizzato con l'architettura sottostante. 
Le altre due caratteristiche della "street art" sono, a detta di molti "esperti", la promozione di artisti che operano al di fuori del circuito delle gallerie ufficiali e il carattere trasgressivo e clandestino degli interventi. Anche queste due caratteristiche però sono venute meno: la prima grazie alla diffusione di internet e dei social media, la seconda perché ormai sono le istituzioni stesse ad ufficializzare la "street art" come forma moderna di decorazione, anche attraverso committenze ufficiali e lauti pagamenti.

Ma vediamo la storia di questa forma espressiva oggi tanto di moda. Gli esordi della cosiddetta "street art" affondano le radici nel mondo delle periferie newyorkesi, dove venivano realizzate iscrizioni sulle mura esterne degli edifici, usando prevalentemente bombolette spray. Nasce così il "graffitismo" o "writing". Questo tipo di interventi "clandestini", già presenti negli anni Sessanta e Settanta, erano in gran parte l'espressione del disagio delle minoranze afroamericane ed ispaniche ed avevano intenti critici nei confronti della politica e della società.
Le forme di queste iscrizioni si ispirano, prevalentemente, a modelli di matrice pop, caratterizzati dall'appropriazione del linguaggio grafico della pubblicità e del fumetto. 

Si ripresentava così, in questi pionieri del graffitismo, l'ennesima versione del "buon selvaggio": una figura di cui la cultura ufficiale occidentale va in cerca da almeno due secoli per farne il proprio eroico e rude liquidatore. Eccone il profilo: abitante delle periferie anonime, sradicato dalla sua cultura, disagiato, randagio e, magari, anche membro di una gang (la versione moderna dell' anticha tribù). Dopo il selvaggio, il pazzo e il bambino, ecco il nuovo soggetto capace di entrare in contatto con  forze pulsionali e ataviche, sfuggito all'educazione perbenista e borghese della tradizione occidentale. Con il tempo la critica e la committenza hanno gradualmente iniziato a valorizzare queste espressioni spontanee, facendole addirittura diventare, da interventi illegali e sanzionati , il linguaggio ufficiale della decorazione pittorica di molte città. Anche il rapporto con il supporto architettonico è spesso quello tipico del manifesto pubblicitario, che vede il muro non come un'entità caratterizzata da pieni e vuoti, partiture e moduli, cromie e chiaroscuri, ma come una grande superficie da coprire con un inconfondibile spot pubblicitario del proprio ego. Questo tratto, a pensarci bene, è comune anche alla logica del tatuaggio, che, in certi casi, per la sua estensione e la sua forma, annulla l'anatomia del corpo sottostante e lo rende illeggibile.

Spesso la periferia è il luogo dove queste manifestazioni grafiche trovano il loro ambiente privilegiato, ma anche nei centri storici, spesso per iniziativa di sedicenti esperti, si è iniziato a decorare pareti e bandoni di negozi con tutto il repertorio di forme proprie della "street art" e, più in generale, dell'arte contemporanea rivoluzionaria. Questo tipo di operazioni non arricchisce assolutamente i centri storici, anzi, inserisce degli elementi completamente avulsi alle forme e ai colori  degli edifici d'epoca, alterandone e compromettendone l'unità di stile e il messaggio formale.
Un esercito di "Pokémon", di personaggi dei fumetti, di segni alfabetici incomprensibili, gonfiati come palloncini di plastica dai colori fluorescenti, si sta preparando, come le truppe sotterranee degli orchi di Sauron, a cancellare i resti di un passato che con le sue stesse forme parlava di equilibrio, armonia, razionalità, in un vero dialogo con l'antico. Questa milizia, baldanzosamente futurista, già in azione, è costituita spesso da giovanissimi che iniziano la loro carriera imitano gli esordi clandestini dei loro idoli ormai affermati, ricoprendo di spray e vernice qualsiasi superficie gli si presenti a tiro, senza tenere conto della storia e dell'estetica di ciò su cui vanno a incidere.
Non di rado i contenuti di quest'arte sono banali e scontati, come nel caso di Keith Haring (autore del celebre dipinto murale Tuttomondo sulla canonica di Sant'Antonio a Pisa) e soprattutto di Banksy: un mediocre disegnatore di stencil che fa dei luoghi comuni del politicamente corretto lo specchietto per le allodole capace di attirare  critica e mercato: cortocircuito di una civiltà che dopo aver creato il disagio, ora lo propone come nuovo paradigma estetico ed etico.

Per questo tipo di interventi sembra quanto mai appropriato il concetto di "cancel culture". Ci stiamo accorgendo che nei musei vengono sempre più limitate le collezioni di pittura e di scultura antica, come nella Galleria Nazionale di Roma? Che i resti del mondo antico e della civiltà del bello, con il pretesto di un "dialogo col contemporaneo", o semplicemente di un restauro, vengono sistematicamente alterati, sommersi da materiali e forme assolutamente incompatibili e cancellati pezzo a pezzo? La "street art" è uno dei fronti di questa battaglia. Possibile che ai giovani, anche all'interno degli istituti d'arte e delle accademie, vengano proposte come modelli le derive di un mondo ormai al tramonto, desideroso solo di distruggere se stesso?