Stragi negli Usa, anche i media sono responsabili
Da San Josè a Dayton fino a El Paso, negli Stati Uniti le scorse sono state settimane terribili, di stragi e sparatorie, sangue e vittime. Quando si verificano fatti di sangue così vicini l'uno dall'altro, è possibile che sia per effetto imitazione. E in questo i media, per come danno le notizie, hanno una grande responsabilità.
Da San Josè a Dayton fino a El Paso, negli Stati Uniti le scorse sono state settimane terribili, di stragi e sparatorie, sangue e vittime. Una vera e propria escalation di violenza che, com’era prevedibile, oltre all’indignazione e al dolore ha scatenato reazioni impulsive e talvolta ideologiche. Quasi nessuno, però, pare essersi chiesto una cosa: e i media? Possono aver avuto un qualche ruolo nel favorire questi episodi? Una lacuna francamente singolare.
Sì, perché se da un lato nessuno dubita del fatto che la responsabilità sia sempre personale, dall’altro esistono indizi di come i mezzi di comunicazione possano svolgere – e di fatto stiano svolgendo – un ruolo detonante rispetto a molti episodi di violenza, stragi incluse. Ad attestarlo, le risultanze del Violence Project, uno studio finanziato dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti a cura di James Densley, docente alla Metropolitan state university, e Jillian Peterson, criminologa alla Hamline university, i quali hanno preso in esame oltre 150 sparatorie di massa verificatesi America dal 1966 a oggi.
Ne è derivato Gun Violence in America, un report di una cinquantina di pagine con parecchie informazioni interessanti. Nello specifico, gli autori hanno scoperto che gli autori di quasi tutte le sparatorie di massa hanno numerosi aspetti in comune ma, tra questi, emerge con chiarezza un elemento: l’ispirazione che essi possono aver avuto dai casi avvenuti in precedenza.
In altre parole, la grande attenzione mediatica nei confronti delle stragi ha elevate probabilità di tradursi in un grilletto che arma le menti più squilibrate. Non si spiegherebbe diversamente quanto rilevato da tre studiosi in una ricerca pubblicata quattro anni fa su PLoS ONE, e cioè l’elevato rischio, nei 13 giorni successivi ad una sparatoria, che se ne verifichi un’altra.
Un rischio di contagio che per ovvie ragioni non può che avere genesi mediatica, e che investe l’ambito criminale in senso lato. Gli specialisti americani che hanno esaminato fatti di sangue anche al di là delle sparatorie hanno infatti già rilevato oltre 400 episodi nei quali il «copycat effect», l’effetto emulativo, è risultato evidente per prossimità temporale e analogie esecutive. Il che risulta doppiamente grave quando si parla di stragi i cui autori finiscono con il bramare una ricerca di visibilità che, in condizioni normali, mai avrebbero raggiunto.
Tanto che due criminologi, in una pubblicazione apparsa nel 2017 su American Behavioral Scientist, hanno espressamente invitato i giornalisti a fare proprio questo, ossia a dare pure la notizia – com’è inevitabile accada – delle sparatorie di massa quando si verificano, ma di farlo senza fornire i nomi e soprattutto far vedere i volti degli autori delle stesse. Che le cose stiano in questi termini, e cioè i media – a partire, oggi, dai social – possano giocare un ruolo chiave in queste stragi è provato dalla stessa strage di Orlando, che nel giugno 2016 vide coinvolte oltre un centinaio di persone. Studiando quanto accaduto quella notte, infatti, i criminologi si son accorti di un aspetto inquietante quanto emblematico: Omar Seddique Mateen, il responsabile del massacro, mentre era all’opera controllò più volte il suo account Facebook. Un piccolo ma sconvolgente dettaglio che suffraga quanto sottolineato dai responsabili del Violence Project.
Ora, per evitare conclusioni che banalizzino quanto fin qui esposto, urge ribadire che non è provato un ruolo causale dei media verso sparatorie che rimangono in primo luogo, lo si ripete, responsabilità del killer di turno. Ciò non toglie, alla luce di quanto detto, che la spettacolarizzazione della violenza eserciti comunque un ruolo condizionante, soprattutto nei confronti di soggetti già problematici e quindi già esposti, a priori, al rischio di commettere crimini.
Motivo per cui, evitando comode – e del tutto fuorvianti - reductiones al suprematismo bianco o alla lotta alle armi, pare il caso, quando ci si trova a commentare certi fatti, di ricordare che esiste anche una responsabilità da parte degli organi di informazione. Che devono essere consapevoli che si può offrire un buon servizio, anzi se ne può fare uno eccellente, anche sospendendo una corsa a dar notizie che, a volte, rischiano di essere molto pericolose.