Storia di Feng, vittima dell'aborto forzato
Il caso di Feng Jianmei è tornato d’attualità perché la ragazza cinese pochi giorni fa ha deciso di parlare. Feng è una delle tante vittime della politica del figlio unico in Cina: prelevata e picchiata, fu costretta ad abortire al settimo mese.
Si chiama Feng Jianmei, il suo caso risale al giugno scorso, ma è tornato d’attualità perché la ragazza cinese pochi giorni fa ha deciso di parlare.
Feng è una delle tante vittime della politica del figlio unico in Cina: fu costretta ad abortire al settimo mese di gravidanza, dopo essere stata prelevata dalla propria abitazione e picchiata.
Le foto orribili che circolano su internet la ritraggono riversa su quello che pare un letto d’ospedale, con accanto il figlio morto frutto dell’interruzione di gravidanza forzata. Le notizie circa le brutalità alle quali è stata sottoposta Feng Jianmei sono circolate fin da subito grazie ad associazioni che si dedicano alla tutela dei diritti umani, e delle donne in particolare, in Cina. Tra esse 64Tianwang e Women’s Rights Without Frontiers, che descrissero i particolari della vicenda: la donna, residente nella provincia di Shaanxi, fu bendata e portata via da ufficiali governativi operanti nell’ambito del controllo demografico, mentre il marito, Deng Jiyuan, si trovava al lavoro.
Di fronte al rifiuto della donna di pagare una multa a carico della propria famiglia per non aver rispettato la politica del figlio unico (quella di Feng era la seconda gravidanza), i funzionari decisero che quel bimbo non doveva vivere. Le fu iniettata una soluzione chimica nell’utero e due giorni dopo la donna dette alla luce il figlio nato morto.
A distanza di otto mesi dall’accaduto, Feng Jianmei ha deciso di parlare della sua storia in un’intervista rilasciata a Dragon TV, i cui contenuti sono stati diffusi anche grazie all’impegno di All Girls Allowed, un’altra organizzazione molto impegnata nella lotta allo sterminio delle bimbe in Cina causato dalla politica del figlio unico.
Nell’intervista, la donna ha raccontato di aver cambiato città per evitare che ogni giorno riaffiorassero i ricordi dell’aborto, indelebili anche a causa di problemi di salute conseguenti alla fine traumatica della gravidanza.
Feng è ancora in cura, prende medicine ogni giorno e in questi mesi si è dovuta sottoporre a molti controlli e persino a un intervento chirurgico.
Inizialmente le autorità di Ankang, la città dove la donna risiedeva all’epoca dei fatti, avevano promesso di rimborsare i costi delle cure alla donna, ma al momento nessun passo è stato ancora fatto in tale direzione. Alcuni funzionari coinvolti nella vicenda sono stati licenziati, ma si tratta di una magra consolazione per Feng Jianmei, che a tal proposito ha dichiarato:
«Non c’è un vero vincitore in questo caso. Abbiamo perso la cosa principale. Abbiamo perso un bambino».
Attualmente Feng e il marito vivono in città diverse e nell’intervista la giovane ha espresso la speranza che il suo calvario finisca per poter tornare presto a vivere assieme al suo sposo e iniziare una nuova vita.
Unanime fu la condanna della politica demografica cinese. Il Parlamento europeo, un mese dopo la violenza subita dalla giovane madre, approvò una risoluzione a proposito dello «scandalo» relativo all’aborto forzato in Cina. La risoluzione citava proprio la storia di Feng Jianmei, dalla quale si prendeva spunto per una ferma condanna di ogni misura coercitiva di controllo demografico, pur non perdendo l’occasione per ribadire l’importanza dell’accesso libero e consapevole a ogni mezzo di pianificazione familiare (che nell’accezione comunemente usata a livello di istituzioni europee e internazionali non significa altro che contraccezione e aborto volontario).
Della terribile vicenda si occuparono moltissimi quotidiani di tutto il mondo, dal New York Times al Wall Street Journal, dal Guardian al Daily Mail. Secondo la ricostruzione di quest’ultimo, alla donna fu fatto firmare un modulo di consenso all’interruzione di gravidanza mentre era ancora bendata.
Seppur significative a livello politico, le scuse ufficiali manifestate dalle istituzioni cinesi nei confronti della donna dieci giorni dopo l’aborto forzato non possono certamente cancellare lo sdegno per il brutale trattamento riservato a Feng e neppure tranquillizzare l’opinione pubblica circa il futuro delle politiche demografiche in Cina.
Pochi giorni fa un altro episodio drammatico, dai contorni al momento non del tutto chiari, ha visto protagonisti ancora una volta dei funzionari incaricati di far rispettare la politica del figlio unico. Il 4 febbraio scorso undici di loro si sono recati a casa di Lian-Di Chen e della moglie per la riscossione della tassa che chi ha più di un figlio deve pagare. Probabilmente a causa dell’impossibilità della famiglia di pagare l’importo, padre, madre e tre figli sono stati prelevati dalla loro abitazione. Mentre si accingevano a seguire gli impiegati del governo, un’auto con a bordo alcuni di loro ha investito il figlio di tredici mesi di Lian-Di Chen, causandone la morte.
Nonostante abusi e incidenti come quelli raccontati, che mostrano tutto l’orrore quotidiano della Cina comunista, non sembrano esserci spiragli per un cambio di direzione. E’ stata ancora una volta l’associazione Women’s Rights Without Frontiers ad informare circa le affermazioni di Wang Xia, direttore della Commissione per la pianificazione familiare e la popolazione nazionale: il 14 gennaio scorso, Wang Xia ha dichiarato che l’obiettivo primario è quello di mantenere basso il tasso di nascite, continuando ad applicare la politica del figlio unico.