Stipendio alle casalinghe? Una brutta idea
Dare uno stipendio alle casalinghe, come propongono Giulia Bongiorno e Michelle Hunziker, sembra un'idea bellissima. Ma si scontra con la realtà. A partire dall'impossibile calcolo sull'ammontare del salario e sulla retribuzione del ruolo educativo.
Dare uno stipendio alle casalinghe: è una proposta che ritorna di tanto in tanto. Questa volta a formularla sono state l’avvocato Giulia Bongiorno e Michelle Hunziker, noto personaggio dello spettacolo. La loro idea è che servirebbe a prevenire la violenza alle donne rendendo le casalinghe autonome, accrescendone l’autostima e valorizzandole agli occhi del mondo. “Se lei sceglie di dedicarsi alla casa – dicono – è giusto che il marito/compagno, se ha un buon reddito, oppure lo stato le riconoscano uno stipendio per il lavoro svolto”.
Le prime domande che vengono in mente riguardano l’ammontare dello stipendio e come calcolarlo. Si può essere d’accordo infatti, come sostengo Bongiorno e Hunziker (e altri prima di loro), che quello della casalinga è un mestiere vero e proprio con un valore sociale e di mercato: ma allora, come tutti gli altri mestieri, la sua retribuzione va decisa secondo precisi, oggettivi parametri di resa e produttività.
Tra i criteri possibili: ampiezza della casa (magari, però, oltre a una certa dimensione, fatti loro), con o senza giardino e terrazzi (idem), con pavimenti di legno o materiali di più facile manutenzione, numero di elettrodomestici, distanza dell’abitazione da negozi utili e supermercati, disponibilità di un’automobile (meglio, la bicicletta, anzi, un incentivo per chi la usa), numero di conviventi, detraendo ovviamente dal lavoro quantificato la parte di faccende domestiche che la una persona deve comunque svolgere anche se abita da sola. Per giustizia, non solo nei confronti dei cinque milioni di casalinghe italiane, ma anche di chi pagherebbe lo stipendio (nel caso fosse lo stato, tutti i contribuenti italiani poiché sarebbero loro a rendere possibile la retribuzione) occorrerebbe inoltre poter controllare le attività effettivamente svolte: si può pensare, ad esempio, di dare lo stesso stipendio a chi acquista spesso cibi pronti e a chi invece cuoce in casa anche il pane? A chi lascia sporco il frigorifero per mesi e a chi tira la cucina a specchio tutte le sere? E, per la stessa ragione, si dovrebbe forse prendere in considerazione di stabilire contrattualmente quante volte al mese si devono cambiare lenzuola, tovaglie e asciugamani, lavare i vetri delle finestre e i pavimenti, togliere la polvere… e ancora: istituire norme per garantire qualità e valori nutritivi dei pasti – riso, passati di verdura, pasta, pesce e carne – e varietà delle ricette…?
L’eventuale, ma frequente esistenza di figli inoltre introduce altri interrogativi, uno in particolare: se allevare una nuova generazione (attività di indubbio, essenziale valore sociale) diventa un lavoro retribuito, a carico di chi svolge attività produttive (che si tratti del marito o della collettività), non è meglio e più giusto (nei confronti della società e dei figli stessi) razionalizzare, raggruppando i bambini in strutture specializzate, per abbassare i costi e uniformare il servizio? In questi termini, la domanda si pone anche nel caso di coppie senza figli. Perché non abbattere i costi della forza lavoro eliminando le unità abitative coniugali o almeno penalizzandole e incentivando forme di convivenza comunitaria? Inoltre il numero delle casalinghe diminuirebbe drasticamente e con esso il numero delle donne a rischio di violenza domestica.
Ma la domanda più importante è: può darsi che una mamma voglia farsi pagare per accudire i propri figli, nutrirli, crescerli, vegliarli se ammalati, portarli a danza e a nuoto, aspettarne fino a tarda notte il rientro una volta cresciuti? In altre parole: esiste una donna al mondo che rivendichi di essere pagata per fare da mamma ai propri figli?