Stagnazione: il debito è il problema, non la soluzione
L'Italia è a crescita zero in questo secondo trimestre del 2016. Questo nonostante vi siano circostanze internazionali molto favorevoli e il resto dell'eurozona abbia ripreso a crescere. Il problema è, a questo punto, attribuibile solo al nostro governo e alle sue politiche, che hanno contribuito a creare il debito pubblico più grande d'Europa.
Il governo aveva previsto e, a questo punto, anche sperato, che l’Istat registrasse almeno un +0,2 di crescita economica. Sarebbe stato ancora uno dei risultati peggiori dell’Ue, ma invece è arrivata la doccia fredda del 0,0. E, diffuso il 12 agosto scorso, questo dato ha scatenato il panico. Solo la Francia ha fatto male quanto noi, ma ha almeno la giustificazione parziale dell’estate del terrore e degli scioperi che hanno paralizzato il paese per protestare contro la riforma del lavoro. Inoltre, se si guarda al risultato annuale, rispetto allo stesso periodo del 2015, la Francia è cresciuta il doppio rispetto all’Italia, +1,4% mentre il nostro dato è un magro +0,7%. Quindi è solo questa la realtà nuda e cruda: l’Italia è il paese che cresce meno in tutta Europa e una di quelle che crescono meno in tutta l’area Ocse. Siamo in piena stagnazione.
Oltre al dato sulla crescita zero anche tutto il resto peggiora. La disoccupazione è tornata a crescere. Attualmente si attesta all’11,6% contro una media dell’eurozona del 10,1%. Ma il dato che dovrebbe preoccupare è quello che riguarda chi il lavoro lo sta ancora cercando, non chi ce l’ha già: la disoccupazione giovanile è al 36,5%. Sono 16 punti percentuali in più rispetto alla media europea. La giustificazione solitamente addotta dal nostro governo, cioè la tendenza alla stagnazione in tutta l’eurozona, non regge più alla prova dei fatti. L’eurozona cresce, nell’ultimo anno, dell’1,8%, l’Italia, come abbiamo visto, meno della metà. Se si vuol parlare di crisi generale del mondo industrializzato, siamo ancor più fuori strada, perché gli Usa crescono del 2,4%, più ancora che l’eurozona. Il Regno Unito, da solo, del 2,3%. Come inizia a notare la stampa economica internazionale, a partire dal Wall Street Journal, è l’Italia che rischia di diventare una zavorra per l’Ue. Contrariamente alla giustificazione classica dei governi precedenti (quella della “congiuntura internazionale negativa”), non abbiamo mai avuto così tante circostanze favorevoli come negli ultimi due anni: bassi prezzi di petrolio, un governatore della Bce che ha svalutato l’euro per sostenerci, un governo con buone entrature e voce in capitolo nell’Ue, due macro-eventi mondiali in Italia quali l’Expo 2015 e il Giubileo. Eppure non cresciamo.
Se eliminiamo queste giustificazioni, come si spiega la stagnazione? Per il governo Renzi la risposta è facile: l’austerity, che ci verrebbe chiesta dall’Ue. A questo proposito, il premier si prepara a chiedere maggiore flessibilità. Tradotto in termini semplici: che l’Ue chiuda un occhio o due se il governo spende di più e tassa meno, anche a costo di sforare i parametri europei. La stampa nazionale pare concordare all’unanimità con questa diagnosi: se l’economia italiana segna il passo è perché è soffocata dall’austerity. E’ anche concorde sulla cura: più spesa pubblica per stimolare la domanda. Viene ritenuto essenziale anche il taglio delle tasse, come suggerisce l’autorevole Financial Times: “Accelerare il taglio delle tasse sul reddito su vasta scala nel 2018 potrebbe essere una opzione”. L’Italia è il paese che attualmente registra la pressione fiscale complessiva più alta d’Europa, a pari merito con la Francia (e sulla famiglia la pressione è la più alta in assoluto). Ma tagliare le tasse a fronte dell’aumento della spesa pubblica vorrebbe solo dire sforare i parametri europei, sfondando il tetto del 3% di deficit. E’ per questo che il governo Renzi chiede maggiore flessibilità.
Problema: è vero che una maggior spesa pubblica stimola la domanda? Stando all’esperienza degli ultimi due anni, la risposta è: no. Un esempio concreto è costituito dai famosi 80 euro in busta paga. Possono essere considerati come una tassa in meno (restituita) o una spesa in più, ma in ogni caso non hanno stimolato i consumi, che hanno invece continuato a contrarsi. E’ vero che, in questi anni, siamo stati costretti a ridurre la spesa pubblica? No, nemmeno questo. Dal 2013 (governo Letta) al 2015 (governo Renzi), la spesa pubblica è stata pari al 51%, 51,2% e 50,5% del Pil. Se da questo dato togliamo la spesa per interessi passivi (ciò che lo Stato paga ai suoi creditori) i numeri diventano 46,2%, 46,6% e 46,3%. Dunque la spesa pubblica, al netto degli interessi, è aumentata. Se aggiungiamo il dato degli interessi passivi, è rimasta grosso modo costante.
E’ vero che l’Ue ha permesso a Spagna e Portogallo di sforare i parametri per rilanciare la loro economia e dunque dovrebbe comportarsi allo stesso modo anche con noi? E’ vero, ma solo fino a un certo punto. Perché la Spagna e il Portogallo hanno potuto indebitarsi maggiormente, ma solo a patto di accettare e seguire pedissequamente una linea politica dettata dalla troika (Fmi, Ue e Bce). Inoltre, in Italia, si aggiunge il problema del debito pubblico: a giugno toccava i 2.248,8 miliardi, il 132,7% del Pil, più del doppio di quello consentito dai parametri di Maastricht. In queste condizioni è molto difficile strappare un accordo sulla flessibilità, soprattutto considerando che ogni anno si è concluso con un disavanzo pubblico annuale pari o solo leggermente inferiore al 3% consentito: 2,9% nel 2013, 3% nel 2014, 2,6% nel 2015. In sintesi: il governo ha già ampiamente fatto uso della spesa pubblica per stimolare la crescita, ma non ne abbiamo tratto giovamento. Se chiede di fare ancor più debiti, perché mai dovrebbe produrre crescita? Aumentare il debito ulteriormente minerebbe la fiducia degli investitori. E induce gli italiani a non spendere, in vista dell'inevitabile futuro carico fiscale. Il nostro enorme debito è semmai una delle cause del problema, non può essere proposto come una soluzione.