Squadra Swat vs Isis, ecco il film Mosul
Tra il 2016 e il 2017 in Iraq operò una squadra di ex poliziotti superaddestrati, impiegati soprattutto contro l’Isis, in operazioni ad alto rischio. Erano temutissimi, tanto che, se catturati, venivano passati subito per le armi. Il film Mosul, con attori iracheni e musulmani, parla di questa vicenda e avvisa che si tratta di una storia vera.
Netflix, di cui ci occupammo quando lanciò il film delle ragazzine dieci-dodicenni che sculettavano nelle danze pop, ogni tanto fa cose buone. Purtroppo, l’ossessione gender, che induce a sopravvalutare l’entità del pubblico pagante, contagia più del Covid, tanto che la stessa Disney si piega e inclina all’indottrinamento del pupo anche pre-pubere contro il «bullismo», gli «stereotipi» e i «pregiudizi». Dicevamo delle cose buone della Netflix. Ecco allora un film di «machos», per giunta tutti musulmani. Si tratta di Mosul, uscito lo scorso anno ma solo da poco in circolazione. Se a qualcuno l’Isis sta sull’anima, ecco il film che fa per lui.
Il film è americano, la regia è di Dan Gabriel, che ha lavorato nella regione come ufficiale antiterrorismo della Cia e ha anche prodotto il summentovato film. La storia è questa: tra il 2016 e il 2017 in Iraq operava una squadra Swat (teste di cuoio, commandos superaddestrati per operazioni spericolate e ad alto rischio) composta da ex poliziotti selezionati e al servizio del governo iracheno. Impiegati soprattutto contro l’Isis (il califfato jihadista, detto anche Stato Islamico o Daesh), erano temutissimi, tanto che, se catturati, venivano subito passati per le armi (laddove agli altri prigionieri di guerra veniva offerta l’alternativa di affiliarsi, stipendiati e con diritto di saccheggio, ai jihadisti). Ebbene, il film parla di questa squadra e avvisa che si tratta di una storia vera. Gli attori sono tutti iracheni e musulmani. La vicenda è narrata nello stile del thriller, perché fino all’ultimo non si sa quale sia la missione di questa squadra. Ma è anche un film di guerra, e come tale si gusta anche conoscendo in anticipo il finale.
Ebbene, per tutto il film la squadra combatte e avanza verso un obiettivo che, si capisce, non è stato loro ufficialmente assegnato. Però la determinazione con cui si aprono la strada in una Mosul semidistrutta e verso i quartieri in cui ancora imperversa l’Isis fa intuire che non si tratta del fantomatico «tesoro di Saddam» (come nel film Three Kings del 1999 con George Clooney). No, la posta è, per quegli uomini, ben più alta. Ed è questa: i jihadisti, come loro costume quando occupavano una città, avevano aperto le porte delle prigioni e liberato tutti i detenuti, nella quasi totalità delinquenti comuni. A condizione che si unissero all’Isis, cosa che, ovviamente (stipendio+saccheggio), tutti facevano.
Ma quelli di Mosul avevano anche un conto aperto con gli ex poliziotti della squadra Swat, che a suo tempo li avevano arrestati (e si immagina che non dovevano averlo fatto con le buone maniere). Li conoscevano uno ad uno, li avevano studiati e sapevano dove vivevano le loro famiglie. Cioè, nei quartieri ora occupati dal califfato. La missione extra-legem, dunque, è questa: salvare i propri familiari, moglie e bambini, dalle mani di quelle bestie tagliagole. Le quali, come si vede nel film, non hanno riguardo per nessuno, donne, vecchi o bambini (e bambine) che siano. Nel film compaiono e si intersecano tutti quelli che si trovarono implicati nelle battaglie per Mosul, sunniti iracheni, milizie sciite filo-iraniane, peshmerga curdi e combattenti cristiani. E un giovanissimo, ventunenne, l’unico che non ha famiglie da salvare, diventerà un uomo accettando di coinvolgersi, per umanità e cameratismo, in una missione che non lo riguarda.