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L'OFFENSIVA

Sotto la spada del Califfato islamico

Dall’Iraq al Libano, dall’Afghanistan alla Libia il trionfo delle armate jihadiste sembra inarrestabile. Complice il disinteresse di un Occidente che sembra aver smarrito la percezione dei propri interessi strategici, il successo dei movimenti armati islamisti rischia di creare un pericoloso assetto geopolitico.

Esteri 09_08_2014
Guerriglieri islamici dell'Is

Dall’Iraq al Libano, dall’Afghanistan alla Libia il trionfo delle armate jihadiste sembra inarrestabile. Complice il disinteresse di un Occidente che sembra aver smarrito la percezione dei propri interessi strategici, il successo dei movimenti armati islamisti rischia di creare un nuovo assetto geopolitico in grado di determinare conflitti prolungati e generalizzati.

In Iraq l’inspiegabile ritiro delle forze curde dalla piana di Ninive, che i peshmerga avevano occupato in giugno dopo il crollo dell’esercito di Baghdad proteggendo le popolazioni cristiane e yazide, ha favorito l’avanzata delle milizie dello Stato Islamico creando le condizioni per la fuga di almeno 100 mila persone verso Erbil e il territorio curdo. Un contesto nel quale spicca la decisione della Casa Bianca di intervenire con aiuti umanitari e raid aerei mirati che hanno già iniziato a colpire postazioni degli islamisti anche se pare evidente che un impegno militare limitato alle incursioni aeree difficilmente potrà avere effetti rilevanti sul conflitto. Anche i velivoli forniti a Baghdad da russi e iraniani sono da tempo in azione con successo contro le milizie dello Stato Islamico, ma ciò nonostante il contrattacco iracheno non è riuscito finora a conseguire risultati consistenti a fronte dell’impiego di truppe regolari iraniane e milizie sciite.

La ragione potrebbe essere legata al fatto che la guerra è già di fatto un conflitto tra sciiti e sunniti e le popolazioni sunnite del Nord dell’Iraq preferiscono sostenere lo Stato Islamico, cui si sono affiancate la guerriglia baathista e le milizie tribali, piuttosto che sottostare al governo scita di Baghdad. Di certo la consistenza militare dell’Is è molto superiore ai 15 mila effettivi stimati da molti analisti. Per sostenere l’offensiva sul fronte curdo, a Kirkuk, nell’area di Baghdad e al tempo stesso in Siria e perfino in Libano (dove i qaedisti dell’Is e del Fronte al Nusra sono penetrati in forze nei giorni scorsi) sono necessarie forze di almeno 40/50 mila effettivi. Anche la “pulizia etnica e religiosa” in atto nel Nord Iraq sembra rispondere all’esigenza di reperire case e bottino per le migliaia di miliziani stranieri che stanno affluendo da tutto il mondo islamico e dall’Europa per il jihad e per alimentare uno sforzo bellico che nelle intenzioni di Abu Bakr al-Baghdadi, leader indiscusso dello Stato Islamico, travalica i confini di Siria e Iraq spingendosi a minacciare Giordania e Turchia, Paesi da cui provengono molti combattenti dell’Is.

Jihadisti al contrattacco anche in Afghanistan dove i talebani sono all’offensiva in tutto il Paese approfittando del rapido crollo delle capacità militari delle forze di Kabul ora che le truppe alleate stanno completando il ritiro e hanno ridimensionato considerevolmente anche i mezzi aerei. A Kabul un militare afghano rinnegato ha ucciso il generale americano Harold Greene nell’ultimo degli 82 casi di “insider attack” che dal 2009 hanno provocato la morte di 150 militari alleati minando la fiducia dei soldati della Nato negli “alleati” afghani. Per comprendere quale stabilità potrà avere l’Afghanistan dopo il ritiro delle truppe della Nato basta considerare che in molte province i talebani hanno ripreso a condurre attacchi con forze comprese tra i 300 e i mille combattenti. Simili concentramenti di forze non si vedevano dall’offensiva nell’estate 2006 che minacciò di travolgere gli avamposti britannici a Helmand e testimoniano come ormai le forze afghane non possano più contare su un consistente supporto aereo statunitense e alleato. Quello in atto oggi sembra così un anticipo del crollo delle deboli istituzioni afghane che potrebbe verificarsi nei prossimi mesi sulla falsariga di quanto accaduto in Iraq.

In Libia è ormai evidente la vittoria dell’alleanza islamista che unisce i qaedisti di Ansar al-Sharia attivi in Cirenaica ai Fratelli Musulmani, forti soprattutto in Tripolitania dove possono contare sul sostegno delle milizie di Misurata. A Bengasi sono state occupate tre basi delle forze militari fedeli al generale Khalifa Haftar, che pare sia fuggito in Egitto, e Ansar al Sharia ha proclamato il Califfato integrandosi con altre aree come Derna già da tempo in mano ai qaedisti.  Il Parlamento eletto col voto del 25 giugno, a stragrande maggioranza laico o moderato e comunque avverso agli islamisti, si riunisce quasi clandestinamente a Tobruk, a 1.500 chilometri dalla capitale Tripoli ma a soli 150 dal confine egiziano dove i parlamentari potrebbero riparare in breve tempo. L’unica possibilità di impedire alla Libia di diventare un altro Afghanistan è riposta oggi in un intervento militare a sostegno delle forze laiche che solo Italia ed Egitto, che pagano direttamente le conseguenze del caos libico, avrebbero interesse a varare in tempi stretti.

Anche il successo di Hamas a Gaza può venire inserito in questa fase ascendente dell’islamismo. Il movimento che tiene sotto il pugno di ferro la popolazione di Gaza ha potuto contare sull’ampio supporto di Stati Uniti ed Europa (governi quanto opinioni pubbliche) per fermare l’offensiva delle truppe di Israele, accusate paradossalmente di crimini di guerra a differenza di Hamas che usa la propria popolazione come scudi umani.  

In realtà l’Occidente, dagli Stati Uniti all’Europa, guarda quasi con disinteresse, e spesso con ambigua complicità, alla travolgente avanzata islamista, quasi non ci coinvolgesse. Eppure il jihadismo minaccia soprattutto l’Europa non solo in termini di sicurezza, ma anche energetici poiché Il blocco della produzione petrolifera e dei gasdotti dall’Iraq alla Libia colpisce soprattutto le economie del Vecchio Continente. Anche la tragedia dei cristiani iracheni non sembra interessarci molto. La Francia si è detta pronta ad accogliere profughi, ma nessuno sembra volersi impegnare in armi per difendere una delle comunità cristiane più antiche della storia.

La Nato che ha combattuto i serbi favorendo la penetrazione islamica nei Balcani, che ha fatto la guerra in Libia per consegnare il Paese a Fratelli Musulmani e qaedisti ed era pronta per la stessa ragione a farla in Siria, oggi non muove un dito per difendere interessi che dovrebbero essere considerati prioritari dai suoi Stati membri. Paradossalmente, mentre ostenta noncuranza verso il “nemico alle porte”, un’Europa che mai come ora merita la definizione di Eurabia si impegna invece in un braccio di ferro economico e militare con la Russia, unica potenza oggi realmente impegnata a combattere l’islamismo.