Siria, una impasse inquietante
Gli ultimi attentati a Damasco rivelano l'ascesa della fazione jihadista tra i ribelli, e la sua capacità di guidare la rivolta, mentre la situazione militare e politica - anche internazionale - è in stallo. Ma intanto le spinte fondamentaliste si estendono alla Turchia.
L’impasse che caratterizza la crisi siriana sembra ormai estendersi dal piano militare a quello politico, una situazione probabilmente impossibile da sbloccare senza un intervento esterno e dominata da ambiguità e incertezze. Sul campo di battaglia nulla è cambiato negli ultimi mesi se non alcuni dettagli forse non trascurabili. Le truppe governative sono sempre troppo forti per essere sconfitte dai ribelli ma non così forti da poter schiacciare la rivolta e riconquistare i territori perduti. Tra le diverse milizie che combattono il regime crescono per capacità, armamenti moderni, addestramento e successi conseguiti sul campo i qaedisti del Fronte al-Nusra e composte in parte da veterani della guerra in Iraq.
Il rischio è che questi gruppi assumano la leadership della rivolta grazie ai finanziamenti e alle armi provenienti dalle monarchie del Golfo Persico e soprattutto dal Qatar che ha appena stanziato 100 milioni di dollari per la causa siriana, ufficialmente per assistere la popolazione. Per evitare che i jihadisti prendano il sopravvento scalzando i gruppi di ribelli "moderati" (si fa per dire, tra questi sono considerati anche i Fratelli Musulmani), “qualcuno” sta facendo affluire agli altri movimenti armi moderne prodotte in Croazia, sempre di tipo portatile e leggero, comunque non in grado di rovesciare gli equilibri in campo nel confronto con le truppe di Assad. Una situazione che riflette le ambiguità degli Stati Uniti e dell’Europa, schierati da quasi due anni al fianco dei ribelli siriani ma riluttanti a intervenire come fecero in Libia, e timorosi che eventuali forniture di armi possano finire nelle mani degli islamisti o possano consentire loro di mettere le mani sui depositi di armi chimiche di Assad, il cui impiego in azioni terroristiche sarebbe devastante.
Per protestare contro l’inazione della comunità internazionale il principale organismo politico che raggruppa molte sigle della rivolta, la Coalizione Nazionale Siriana, ha annunciato che non parteciperà all’incontro del Gruppo di alto livello in programma giovedì a Roma: un summit organizzato dalla Farnesina che vedrà la presenza del neo segretario di Stato americano, John Kerry, e al quale era atteso anche il capo della coalizione, Ahmed Moaz al-Khatib. La Coalizione ha spiegato che non parteciperà ai prossimi meeting in Italia, Russia e Usa per protesta contro la "vergognosa" mancata condanna internazionale dei "crimini commessi contro il popolo siriano". Secondo il comunicato "il silenzio internazionale sui crimini commessi ogni giorno contro il nostro popolo equivale all'aver partecipato a due anni di omicidi" e conclude con un attacco a Mosca: "Riteniamo i leader russi, in particolare, moralmente e politicamente responsabili perché continuano a sostenere il regime di Damasco con le armi".
In realtà non pochi massacri di civili sono stati effettuati dai ribelli con l’obiettivo di colpire anche i movimenti rivali. E’ il caso della strage compiuta giovedì da tre autobomba esplose nel quartiere centralissimo di al-Mazra di Damasco, tra l’ambasciata russa e il quartier generale del Partito Baath, provocando almeno 53 morti e oltre 300 feriti, tutti civili. Un attentato di chiara matrice jihadista, simile nell’esecuzione a tanti compiuti da al-Qaeda a Baghdad e in altre città irachene, condannato dalla Coalizione Nazionale Siriana mentre il Libero Esercito Siriano, composto dai disertori delle forze di Assad, ha incolpato il regime stesso per la strage. L’attentato pare invece funzionale al progetto dei jihadisti che non vogliono trattare col regime né accettano che a negoziare siano i gruppi moderati. Proprio giovedì scorso infatti si riunivano al Cairo gli esponenti del Coalizione Nazionale Siriana per discutere le condizioni delle eventuali trattative con Damasco per la formazione di un governo di transizione che metta fine alla guerra civile escludendo dal potere Bashar al-Assad. Trattative rese più difficili dall’attentato nel cuore di Damasco.
Del resto il prolungarsi della crisi siriana sta facendo emergere tutte le ambiguità dei ribelli e dei loro sponsor occidentali e medio orientali. In Turchia soprattutto molti si chiedono dove stia conducendo il Paese la politica del premier Recep Tayyp Erdogan, sempre più sbilanciato verso i jihadisti e non solo in relazione al conflitto siriano. ''A forza di giocare con il fuoco la Turchia finirà col bruciarsi'', ha commentato sul quotidiano Hurriyet l'analista Semih Idiz, uno dei tanti commentatori turchi che hanno espresso perplessità per gli atteggiamenti ambigui del governo. Un vero e proprio caso è esploso dopo le dichiarazioni dell'ambasciatore turco in Ciad, Ahmet Kavas, un professore di teologia islamica vicino al ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, che dopo l'intervento militare francese in Mali ha scritto su twitter che ''al Qaeda è diversa dal terrore'' perché “la parola terrore é francese e non può essere opera di musulmani”. Di fatto un ambasciatore turco si dichiara simpatizzante di al-Qaeda senza che Ankara lo censuri o lo rimuova dall’incarico.
Un caso isolato? Un teologo islamico poco adatto a incarichi diplomatici? Pare proprio di no. Lo stesso ministro Davutoglu ha spiegato pochi giorni or sono che ''jihad non significa terrorismo'' e che l'associazione fra i due concetti è dovuta ai neocon statunitensi e alla lobby pro-Israele. Ankara inoltre ha espresso il suo malumore per la decisione di Washington di inserire nella lista nera del terrorismo internazionale il Fronte al-Nusra siriano responsabile degli attentati suicidi più sanguinosi. Del resto Damasco e i curdi siriani accusano esplicitamente la Turchia, Stato membro della Nato con rinnovate pretese di integrarsi in Europa, di aiutare i gruppi jihadisti.