Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Pietro Canisio a cura di Ermes Dovico
GUERRA INFINITA

Siria, il ritiro degli Usa: la vera posta in gioco

La vera posta in gioco è il prossimo ritiro delle truppe americane dalla Siria orientale. Trump lo ha promesso, parte dell'amministrazione non è d'accordo perché questa mossa regalerebbe più spazio a Turchia, Russia e Iran, a scapito dei curdi. Le crisi in Siria di queste settimane ruotano tutte attorno a questa singola vicenda.

Esteri 25_04_2018
Le rovine di Douma

Denunce di attacchi chimici non provati, missili contro le basi di Damasco, pressioni da Parigi e offerte di forze militari da Riad.

La vera posta in gioco dietro agli ultimi sviluppi bellici della crisi siriana sembra essere una sola. il ritiro più volte annunciato da Donald Trump dei 2mila militari statunitensi schierati in Siria al fianco delle milizie curdo-arabe delle Forze Democratiche Siriane (FDS). Trump vuole concludere in fretta l’impegno dei militari Usa su un terreno sempre più caldo, anche a causa delle offensive turche contro i curdi, un ritiro aspramente criticato da diversi ambienti dell’Amministrazione, dal Congresso e soprattutto dal Pentagono oltre che dagli alleati israeliani, sauditi ed europei. Le ragioni di tale opposizione sono chiare: il ruolo de 2mila militari americani costituisce un deterrente contro le offensive dell’esercito turco nel nord della Siria e contro quelle delle truppe di Bashar Assad e dei loro alleati russi e iraniani nelle regioni orientali. La presenza statunitense ha infatti impedito finora alle truppedi Ankara di dilagare in tutto il Nord siriano e a quelle siriane di avanzare oltre l’Eufrate. Di fatto americani e curdi interrompono la continuità territoriale tra l’Iran, l’Iraq, la Siria e il Libano meridionale controllato dalle milizie Hezbollah nota come “Mezzaluna scita”.

Obiettivo strategico condiviso da sauditi, israeliani e francesi, che insieme ai britannici costituiscono ormai uno strumento militare strettamente legato alle monarchie sunnite del Golfo. Obiettivo prioritario della visita del presidente francese Emmanuel Macron a Washington è infatti convincere Trump a rinunciare al ritiro militare dalla Siria. Anzi, a metà aprile Macron aveva rivelato di aver convinto il presidente americano a "mantenere a lungo termine" le truppe in Siria, ma il portavoce della Casa Bianca, Sarah Sanders, aveva negato con decisione che Trump avesse cambiato idea benchè contro la decisione si siano schierati in molti.

Il 15 aprile l'ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, precisò che gli Usa non ritireranno le truppe dalla Siria finchè non ci sarà la certezza che nessun tipo di arma chimica sarà di nuovo usato, la sconfitta dello Stato islamico sarà definitiva e sarà necessario sorvegliare le attività militari iraniane in Siria. Al Congresso di Washington molti repubblicani contestano Trump, accusato di voler “regalare la Siria ad Assad, Putin e all’Iran” come ha detto il senatore Lindsey Graham, brandendo la “spada di Damocle” del Russiagate. All’inizio di aprile Trump aveva mostrato irritazione per l’ostilità del segretario alla Difesa, James Mattis, dell’ex direttore della Cia e neo segretario di Stato Mike Pompeo e del generale Joseph Dunford, capo degli Stati maggiori riuniti, al ritiro dei 2mila militari schierati in Siria. Le ragioni accampate dal presidente riguardano i costi finanziari e i rischi di una missione i cui oneri avrebbe voluto far ricadere sul bilancio dei sauditi che invece si sono offerti di inviare truppe in Siria. Secondo la ricostruzione della Cnn il dibattito interno all’Amministrazione si era risolto con un compromesso in base al quale Trump accettava di posticipare il ritiro dei militari fino alla definitiva sconfitta dello Stato Islamico, per non oltre sei mesi.

Difficile non notare che la denuncia dell’attacco chimico a Douma (ancora da dimostrare) è stata resa nota dalla milizia filo-saudita Jaish al-Islam solo pochi giorni dopo, influenzando (o offrendo loro un buon pretesto) statunitensi ed europei non solo nella decisione di compiere i raid missilistici del 14 aprile, ma anche nel rivedere la questione del ritiro. "In pratica, gli Stati Uniti si stanno stabilendo attivamente sulla sponda orientale dell'Eufrate e non se ne andranno. Là creano autorità locali. A questo proposito, sono attivamente incoraggiati dal presidente della Francia. Un certo numero di Paesi si sono schierati, vogliono il completo sovvertimento della Siria" ha detto il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, che ha definito l’invito di Macron a non ritirare le truppe “una posizione coloniale”. Se da un lato è chiaro che il ritiro americano favorirebbe i turchi e i governativi siriani, è però altrettanto vero che la loro sostituzione con truppe europee (francesi e britannici sono già presenti in Siria) o saudite e arabe, cioè dei Paesi che hanno finora sostenuto i ribelli anti-Assad, aprirebbe prospettive ben poco rassicuranti.

Senza la deterrenza espressa dalle forze americane i curdi verrebbero schiacciati dalle truppe di Ankara e di Damasco, mentre le truppe di Riad si confronterebbero direttamente con gli iraniani presenti in forze in territorio siriano, con il rischio concreto di ampliare il confronto militare tra sciiti e sunniti anche al Golfo Persico. Quanto agli anglo-francesi, non hanno certo né le forze sul campo né la capacità politica di gestire un conflitto contro le truppe di Damasco appoggiate da russi e iraniani.