Sinodo, non esiste pastorale senza dottrina
Nella prassi ecclesiastica si deve applicare sempre e comunque tutta la dottrina della Chiesa, che nel suo "nucleo dogmatico" non può mai cambiare. Nessuna presunta esigenza “pastorale” può giustificare una deroga da questo principio, perché ogni vera esigenza pastorale è già insita nel dogma.
Nei due precedenti articoli abbiamo chiarito alcuni nodi cruciali per leggere correttamente il Magistero e la dottrina cattolica in un momento in cui, in vista del Sinodo sulla Famiglia, c’è chi sta seminando confusione tra i fedeli, anche creando nuove categorie teologiche (come “l’uomo di oggi”) che non hanno alcuna consistenza.
Riassumendo dunque, possiamo dire che nella nozione teologica di “dottrina cattolica” vanno distinti due livelli. Il primo livello è quello che ho definito “nucleo dogmatico”, costituito da vari elementi dottrinali, che vanno dalla predicazione degli Apostoli e dalla dottrina unanime dei Padri della Chiesa, alle “formule dogmatiche” definite dai concili ecumenici o dal solo Romano Pontefice quando parla ex cathedra, fino al magistero ordinario e universale del medesimo Romano Pontefice; il “nucleo dogmatico” della dottrina cattolica esprime dunque la verità della divina rivelazione, la quale è stata sì donata da Dio e recepita dagli uomini nella storia - nella storia della salvezza e nella storia della Chiesa - ma è di per sé soprastorica, e quindi universale e immutabile.
Il secondo livello è invece quello che si deve intendere come “interpretazione ecclesiastica” e che per sua natura è relativo alla storia e alle diverse circostanze sociali che ne determinano la varietà di contenuti e di forme espressive. Quando si parla di “interpretazione ecclesiastica” non ci si riferisce alle tante forme di libera interpretazione che, entro precisi limiti di contenuto, è consentita ai semplici fedeli, siano essi studiosi di teologia, artisti, letterati o maestri di spiritualità. Questa interpretazione “privata” ha un suo ruolo nell’economia della salvezza, e la Chiesa le riconosce un grande valore come sussidio della catechesi, come potenziamento dei “santi segni” nel culto divino (arte sacra), come edificazione del Popolo di Dio nella ricerca della santità personale (ascetica e mistica) e nella missionarietà, soprattutto quando si tratta dei carismi apostolici e dell’esperienza spirituale dei santi. Non è però tale da sviluppare il dogma con dottrine nuove, come invece avviene nel caso dell’interpretazione ecclesiastica, i cui risultati impegnano i cattolici all’assenso interno dell’intelletto e anche all’obbedienza esterna quando si tratta di disposizioni ecclesiastiche obbliganti.
Alla categoria logica dell’interpretazione ecclesiastica appartengono: (a) la catechesi nelle sue diverse forme, tra le quali ha un particolare valore ecclesiale la redazione dei catechismi per la Chiesa universale, come il Catechismus ad parochos, redatto dopo il Concilio di Trento, e il Catechismo della Chiesa Cattolica, redatto dopo il Vaticano II; (b) la sacra liturgia, le cui variazioni o riforme rispondono sempre all’esigenza di adattare ilo rito alle diverse epoche e situazioni sociali, mantenendo sempre immutata la funzione di “lex orandi” come fedele espressione della “lex credendi”; (c) le norme di diritto ecclesiastico, rapportate tutte al criterio pastorale per cui “salus animarum suprema lex esto”.
In entrambi i livelli – quello del dogma e quello dell’interpretazione – è impossibile che possa o addirittura debba essere creduto un enunciato che risulti essere in chiara contraddizione logica con quelli che la Chiesa ha già definito come irriformabili. Pertanto, il vaglio critico delle proposte che sono state presentate in occasione del Sinodo deve portare a respingere – in quanto teologicamente infondate e dunque irricevibili – tutte quelle che con il pretesto di presunte urgenze di tipo “pastorale” esercitano sul magistero un’indebita pressione perché accondiscenda a quella che in realtà sarebbe una vera e propria “riforma” della dottrina della Chiesa, a cominciare proprio da quelle dottrine che sono da considerate irriformabili; ciò vale in particolare per l’indissolubilità naturale del matrimonio e la sua sacramentalità per i battezzati, come pure per le condizioni che consentono l’accesso all’Eucaristia).
Quello che Marin-Sola chiamava la “evoluzione omogenea del dogma” appartiene in pieno al primo livello epistemico della fede, ed è pertanto funzione propria del Magistero, e non dei teologi. Il che non toglie che il Magistero possa in alcuni casi (emblematico è quello della tesi di Giovanni Duns Scoto riguardo all’Immacolata Concezione di Maria) riconoscere la coerenza e la pertinenza di un’ipotesi teologica e decida di trasformarla in dogma, avvalendosi della propria autorità (munus propheticum) e del carisma di infallibilità (infallibilitas in docendo) che ad essa è collegato per istituzione divina. Mai comunque la Chiesa può enunciare delle proposizioni di fede che risultino in contraddizione con quelli precedentemente formulati.
Qualora ritenga necessario definire nuove verità, nella linea dello “sviluppo omogeneo del dogma”, tali definizioni dogmatiche risulteranno in assoluta coerenza logica con quellie precedentemente formulate: si tratta in questo caso della logica per la quale un nuovo enunciato particolare si dimostra virtualmente contenuto in un altro, più generale, precedentemente accertato dal Magistero come facente parte della rivelazione divina. Ma più frequentemente il Magistero, invece di enunciare nuovi dogmi, si limita a interpretare autorevolmente il contenuto del nucleo dogmatico, traendone talune conseguenze dottrinali che ritiene pastoralmente opportune in vista della catechesi e dell’evangelizzazione in un dato momento storico (questo è il caso delle dottrine contenute nei documenti del Vaticano II, la cui ermeneutica, secondo papa Benedetto XVI, è quella di una «riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa»).
Per questo ha ragione chi, come il cardinale Raymond Burke, va ripetendo che, quando si parla di “sviluppo della dottrina”, non si deve pensare a “una modifica” ma solo a «una comprensione più profonda» delle verità della fede. Invece, non ha alcuna giustificazione teologica la proposta di sostanziali modifiche della prassi liturgica e delle leggi canoniche che taluni presentano come provvedimenti meramente “pastorali”. Nessuna prassi pastorale può essere lecita e valida se risulta in contraddizione con la dottrina della fede, perché – come ho spiegato più sopra – ogni scelta pastorale altro non è se non un’interpretazione (esplicitazione, applicazione, adattamento) del dogma.
Occorre, anche a questo proposito, applicare rigorosamente al discorso teologico il principio in base al quale nella prassi ecclesiastica si deve applicare sempre e comunque tutta la dottrina della Chiesa, che nel suo “nucleo dogmatico” non può mai cambiare. Nessuna presunta esigenza “pastorale” può giustificare una deroga da questo principio, perché ogni vera esigenza pastorale è già insita nel dogma. In altri termini, la pastoralità, come istanza pragmatica, non ha una sua logica indipendente dal dogma ma è intrinseca al dogma stesso e alla sua logica salvifica. Le analisi di logica aletica dimostrano in modo innegabile che l’evento della divina rivelazione ha di per sé un carattere pragmatico, dal quale deriva direttamene, per la Chiesa, l’identificazione della pastorale con l’annuncio (in forme adeguate a ogni circostanza) della verità rivelata.
Come insegna il Vaticano I, Dio con la rivelazione soprannaturale ha voluto far conoscere all’uomo la sua vita intima e i disegni del suo Amore. Ambedue questi contenuti della fede hanno un carattere che non può essere considerato come astrattamente teoretico perché invece è esistenzialmente pragmatico, nel senso che il motivo e il fine della divina Rivelazione non sono altro che la possibilità offerta all’uomo di conoscere il cammino e i mezzi della salvezza.
Nell’antica Alleanza tutto il contenuto della rivelazione che Dio affida ai Profeti per guidare il suo popolo alla salvezza vien compendiato nel termine pragmatico di “Legge” (Torah). Nella Nuova Alleanza, poi, il Verbo Incarnato, rivelatore del Padre, dice di sé di essere “la vita, la verità e la vita”. E la prima predicazione di Pietro al popolo di Israele accorso a Gerusalemme per la Pasqua provoca immediatamente una domanda: «Che cosa dobbiamo fare?». Analogamente, al Signore Gesù che, apparendogli sulla strada di Damasco, gli rivela il mistero dell’identificazione dei fedeli perseguitati con lui stesso, Saulo risponde chiedendogli: «Che cosa vuoi che io faccia?».
Tutto ciò conferma che la dottrina rivelata, che io amo designare con il termine pragmatico “la verità che salva”, non può essere mai intesa come qualcosa di teorico che di per sé è avulso dalla vita e che può essere messo in contatto con la vita stessa solo in una sfera diversa, come sarebbe la “pastorale” così come viene intesa dalle illogiche teorie delle quali stiamo parlando. La vera pastorale altro non è se non la piena attuazione e applicazione della verità rivelata per la salvezza di ogni uomo nella concretezza della sua esistenza, lì dove ciascuno diventa “uditore della parola” e alla Parola che lo interpella risponde con l’«obbedienza della fede».
Ultimo di una serie.
Le precedenti due puntate sono state pubblicate il 5 luglio (clicca qui) e il 17 luglio (clicca qui)