Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi

LA VISITA

«Siamo in guerra, pronto ad andare in Kurdistan»

«Siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli». Non ha usato mezzi termini Papa Francesco sulle crisi internazionali in corso durante il volo di ritorno dalla Corea del Sud. Il Pontefice ha aggiunto di «essere pronto a recarsi nel Kurdistan» iracheno per pregare e alleviare la sofferenza delle popolazioni.

 

Ecclesia 19_08_2014
Papa Francesco a Seul

 

Papa Francesco è rientrato a Roma, dopo la visita di cinque giorni in Corea del Sud. Il suo primo gesto è stato di andare alla basilica romana di Santa Maria maggiore, dove ha lasciato un bouquet di fiori avuto in dono da Mary Sol, una bambina coreana di sei anni, prima della partenza da Seul e ha recitato una preghiera di ringraziamento. Durante il viaggio ritorno Francesco ha incontrato i giornalisti. Gli è stato chiesto cosa pensasse dei bombardamenti americani sulle postazioni dell’Isis, i Jihadisti che stanno devastando l’Iraq e perseguitando cristiani, sciiti, yazidi ed altre minoranze. «In questi casi in cui c’è un’aggressione ingiusta», ha detto, «posso dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo fermare, non dico bombardare o fare la guerra, ma fermare. I mezzi con cui fermare dovranno essere valutati. Qualche volta, infatti, sotto questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronire dei popoli e hanno fatto una vera guerra di conquista. Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto. E’ all’Onu che si deve discutere come farlo. Fermare l’aggressore ingiusto è un diritto dell’umanità e anche un diritto dell’aggressore essere fermato, perché non continui a fare del male». Il Papa ha poi denunciato l'efferatezza delle guerre non convenzionali e che sia stato raggiunto «un livello di crudeltà spaventosa» di cui spesso sono vittime civili inermi, donne e bambini. «La tortura è diventata un mezzo quasi ordinario». Questi «sono i frutti della guerra, qui siamo in guerra, è una III guerra mondiale ma a pezzi». Francesco ha poi sottolineato di essere «disponibile ad andare nel Kuridstan iracheno». «Era una delle possibilità prese in considerazione di rientro dalla Corea, ma non era possibile».

Papa Francesco aveva concluso il suo viaggio con una Messa nella cattedrale di Myeong-dong a Seul, offerta per la pace e la riconciliazione del popolo coreano. Se nei giorni precedenti il Papa aveva denunciato energicamente il relativismo, ricordato i martiri ignoti che continuano a morire ai nostri giorni e lodato il lavoro oscuro e paziente della diplomazia, nell'omelia conclusiva si è posto su un piano diverso, chiedendosi che cosa può fare ogni fedele coreano per favorire la soluzione della drammatica divisione fra le due Coree. E che cosa possiamo fare tutti noi di fronte ai tanti drammi che insanguinano il mondo. Il Pontefice è andato alle radici spirituali e teologiche della dottrina sociale della Chiesa, affermando che l'obbedienza alla legge di Dio permette di conseguire nella storia risultati che umanamente sembrerebbero impossibili e di creare, anche nelle condizioni più difficili, una società riconciliata che annuncia sulla Terra il Regno di Dio.

Il Papa ha proposto alla Corea una grande «preghiera per la riconciliazione in questa famiglia coreana. Nel Vangelo, Gesù ci dice quanto potente sia la nostra preghiera quando due o tre sono uniti nel suo nome per chiedere qualcosa. Quanto più quando un intero popolo innalza la sua accorata supplica al cielo!». Può sembrare che la preghiera non serva o sia una fuga dai problemi reali. Ma è il contrario. La Scrittura ci presenta «la promessa di Dio di restaurare nell’unità e nella prosperità un popolo disperso dalla sciagura e dalla divisione». È una promessa consolante, che però non si realizzerà se non ci convertiamo. Infatti «questa promessa è inseparabilmente legata ad un comando: il comando di ritornare a Dio e di obbedire con tutto il cuore alla sua legge. Il dono divino della riconciliazione, dell’unità e della pace è inseparabilmente legato alla grazia della conversione». Senza conversione alla legge di Dio non ci sarà salvezza dalla sciagura e dal dramma. Invece, «la trasformazione del cuore può cambiare il corso della nostra vita e della nostra storia, come individui e come popolo».

Come applicare questo «pressante invito di Dio alla conversione» all'«esperienza storica del popolo coreano, un’esperienza di divisione e di conflitto che dura da oltre sessant’anni»? I comuni fedeli della Corea del Sud non possono risolvere il problema pluridecennale della divisione, ma intanto possono mostrare a tutti un «impegno evangelico per i disagiati, per gli emarginati, per quanti non hanno lavoro o sono esclusi dalla prosperità di molti». Possono «respingere con fermezza una mentalità fondata sul sospetto, sul contrasto e sulla competizione, e favorire piuttosto una cultura plasmata dall’insegnamento del Vangelo e dai più nobili valori tradizionali del popolo coreano». Possono soprattutto vivere una cultura della riconciliazione e del perdono. Noi cristiani «chiediamo quotidianamente al nostro Padre celeste di perdonare i nostri peccati, “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Se non fossimo pronti a fare altrettanto, come potremmo onestamente pregare per la pace e la riconciliazione?». 

Gesù ci chiede di credere, contro ogni evidenza puramente umana, che «il perdono è la porta che conduce alla riconciliazione. Nel comandare a noi di perdonare i nostri fratelli senza alcuna riserva, Egli ci chiede di fare qualcosa di totalmente radicale, ma ci dona anche la grazia per farlo. Quanto, da una prospettiva umana, sembra essere impossibile, impercorribile e perfino talvolta ripugnante, Gesù lo rende possibile e fruttuoso attraverso l’infinita potenza della sua croce». Noi cristiani crediamo nel «potere di Dio di colmare ogni divisione, di sanare ogni ferita e di ristabilire gli originali legami di amore fraterno» e perfino di far sorgere una società riconciliata che preannuncia e manifesta il «Regno di Dio». In Corea come in ogni altro Paese, «Dio ci chiama a ritornare a Lui e ad ascoltare la sua voce e promette di stabilirci sulla terra in una pace e prosperità maggiori di quanto i nostri antenati abbiano mai conosciuto». A uno sguardo soltanto umano tutto questo può suonare come utopia o come millenarismo. Ma si tratta invece del realismo cristiano e delle promesse di Dio, testimoniate come credibili dai martiri e di cui Papa Francesco ha indicato in questo viaggio in Corea le condizioni di realizzazione: rifiuto del relativismo, conversione, penitenza, carità, fedeltà alla legge che il Signore ci ha dato.