Si può sorridere della disabilità. La storia di Matteo
Un libro tutto da gustare, perché dona gioia e speranza, senza censurare la fatica e il dolore della disabilità. Divertirsi facendo uno sport. L'autobiografia di Matteo Premi, MP3. Sulle ruote me la rido, racconto spassoso e genuinamente autoironico di un ragazzo, ora ventitreenne, malato di tetraparesi spastica.
Nei giorni della mancata qualificazione della nostra nazionale ai Mondiali di calcio appena conclusi, per il web, sui social, circolò un video in cui si mostravano le prodezze dei giocatori della “Nazionale di calcio amputati” del CSI (Centro Sportivo Italiano), che aveva già staccato il biglietto per la rassegna iridata del 2018 (che si terrà in Messico nel prossimo autunno). “All’apparenza” – sono le parole dell’allenatore – “i miei giocatori hanno qualcosa in meno. In realtà so di poter disporre di ragazzi che hanno molte cose in più: carattere, cuore, anima, grinta e, come si suol dire, hanno gamba. Una sola ma con una forza straordinaria”.
Mentre queste parole scorrono sullo schermo, si possono vedere gli undici ragazzi che, dotati ognuno di stampella (tranne il portiere, a cui manca un braccio), corrono, sudano, passano e tirano la palla, fanno goal. Giocano a pallone. Divertendosi. Il video si conclude specificando che questa squadra è nata da un sogno del suo capitano, Francesco Messori, un ragazzo nato senza una gamba ma appassionatissimo di calcio che, a 14 anni, ha lanciato un appello sui social per riunire tutti i ragazzi amputati d’Italia che come lui non volevano rinunciare a giocare a pallone. Così una ventina di persone prive di una gamba, chi per un incidente chi per problemi congeniti, ha seguito Francesco nella realizzazione della prima nazionale di calcio italiana amputati. “Oggi” – dice ancora il video – “la loro più grande vittoria è il coraggio che trasmettono ogni giorno a tanti altri giovani amputati e alle scuole calcio che allenano i loro sogni”.
Proprio di coraggio, di sogni che si realizzano, e di entusiasmo da mettere nella vita e nello sport, nonostante le circostanze apparentemente avverse, parla la salutare autobiografia di Matteo Premi, scritta con Maria Chiara Oltolini, MP3. Sulle ruote me la rido (San Paolo, pp.178, € 12,50), racconto spassoso e genuinamente autoironico di un ragazzo, ora ventitreenne, malato di tetraparesi spastica. Un libro che si legge come un film, verrebbe da dire, perché è appagante da un punto di vista umano, pieno di colpi di scena e capace di educare uno sguardo. È scritto, infatti – e il merito va condiviso tra lo spirito indomito del protagonista e la penna elegantissima della co-autrice, una delle nostre narratrici più promettenti –, in maniera tale da invogliare il lettore a guardare la realtà, e la disabilità, con occhi più attenti, con meno austerità e più serenità, perché MP3 è un inno alla vita, come si è letto in alcune recensioni, ma prima di tutto un inno alla gioia.
Matteo Premi nasce in condizioni avventurose, prematuro di cinque mesi, nei pressi del casello autostradale di Vittorio Veneto, dove ci fu un ardimentoso passaggio di consegne tra la macchina dei suoi genitori, che erano in vacanza, e l’autoambulanza che lo portò di corsa all’ospedale di Conegliano, dove fu tenuto in vita all’interno di una incubatrice che non doveva neanche essere lì: “A volte mi chiedo”, scrive, “come sarebbe andata se i miei non fossero andati in vacanza in Veneto, quell’aprile de 1995. Se papà non si fosse messo in viaggio in piena notte quando la mamma gli ha detto di sentirsi poco bene. Se non si fosse fermato al casello, e se la mamma non mi avesse partorito lì, sotto un cartellone della pubblicità. Se qualche medico senza nome non si fosse dimenticato una incubatrice da terapia intensiva all’ospedale. Perché, vedete, un ‘se’ ci può stare. Sono tanti ‘se’ messi assieme che son strani. Ti fanno pensare che forse siamo tutti qui per un motivo preciso”.
Il motivo dello stare al mondo di Matteo si svela pagina dopo pagina, in un diario di cui ogni capitolo prende il nome di un piano (“piano terra, primo piano secondo piano”…), a indicare la scalata che il protagonista è chiamato a fare, impossibile senza l’ascensore e, soprattutto, senza qualcuno che gli voglia bene per quello che è, senza ridurlo alla sua malattia con pietismo o moralismo. La carrozzina su cui Matteo viaggia si chiama Herbie, come “il maggiolino tutto matto” del film Disney: non una trappola cui restare inchiodato, quindi, ma uno strumento amico, da personalizzare, perché ti accompagna e ti aiuta. “C’è una cosa che dicono di me”, scrive l’autore, “e cioè che sono uno che ride spesso. In effetti è vero. Del resto ce n’è già tanti di musi lunghi in giro. Capita, a prendere tutto troppo sul serio. Io preferisco farmi due risate. Non è che lo faccia per posa, o per sdrammatizzare: sono proprio fatto così”. Matteo si diverte a spiazzare chi vede la sua situazione come una condanna: “All’ennesimo, pietosissimo, ‘poverino’ della vecchietta di turno, rispondo che sono sì sulla sedia a rotelle, ma non sono mica scemo. E vi assicuro che spiazzare i vecchietti può essere un’impresa piuttosto esilarante”.
Tutto, nella vita di Matteo, assume un aspetto positivo, perché tutto è dono, a iniziare da quella stessa vita tutt’altro che scontata: “Prima di dimettermi”, racconta dei primi giorni dopo la sua nascita, “il primario chiese ai miei se erano proprio sicuri di quello che facevano. ‘Perché vedete’, aveva detto il primario, ‘se non lo volete, Matteo lo teniamo noi. State sicuri che qualcuno che gli vuole bene lo troviamo’ […]. Ma i miei genitori la pensavano diversamente. ‘No, guardi, gli vogliamo bene anche noi!’, avevano risposto in coro, e allora il dottore aveva consegnato loro la mia cartella clinica. Da quello che ho capito doveva essere l’equivalente in termini medici di un giro sulle montagne russe. ‘Questa è la cartella di Matteo. Fatela vedere a qualsiasi medico. Vi dirà le stesse cose che vi dico io ora. Perché Matteo è qui, non lo sappiamo. Vostro figlio è come un gatto: tre vite le ha già usate, gliene rimangono quattro’”.
Il libro è tutto da gustare, perché dona gioia e speranza, senza censurare la fatica e il dolore che, sottolinea l’autore, in un modo o nell’altro spettano a tutti. Perché allora non dovrebbero spettare a tutti anche l’ebbrezza di divertirsi facendo uno sport? Matteo si avvicina allo sport grazie al Sen Martin, squadra modenese di wheelchair hockey, hockey su sedia a rotelle, esperienza che vedrà coinvolti anche i suoi compagni di classe, in un torneo organizzato nella palestra della scuola e oggetto di due servizi andati in onda su TV2000 e Rai 1. Inoltre, MP3 è pieno di informazioni utili: si scopre che per legge un bambino con tetraparesi spastica dovrebbe iniziare a percepire l’invalidità già dai sei mesi (“norme che nessuno si sogna di insegnarti […] e i miei l’avrebbero scoperto soltanto due anni dopo, quasi per caso”); che esiste un efficace metodo di riabilitazione rivolto a bambini che hanno sviluppato lesioni cerebrali chiamato Doman (dal nome del suo inventore americano Glenn Doman), che nel modenese, dove vive Matteo, è applicato dal gruppo no profit AMA (Associazione Madonna degli Angeli); che a Brescia il CVS (Centro Volontari della Sofferenza) può organizzare tutta la logistica per un viaggio al santuario di Lourdes.
Matteo è il primo ragazzo con la sua patologia a conseguire il diploma di maturità classica. La scuola è stata il banco di prova per testarsi come persona che non cerca scuse per non impegnarsi. “Se sei sulle ruote è ovvio che su certe professioni, tipo il contadino o l’allevatore di cavalli da corsa, è meglio metterci una croce sopra […] ma pensavo che dopotutto, se ero sopravvissuto a un parto in autostrada, alle apnee e a tutto il resto, non sarebbero stati certo il greco, il latino o la grammatica tedesca a mettermi paura”. Matteo non chiede sconti o facilitazioni, è consapevole di meritare un 4 in latino, quando se cose non vanno bene, ed è orgoglioso di raggiungere voti più alti, perché frutto di impegno. Sempre in lotta, spesso vittoriosa, contro la malattia di cui sono affetti gli altri, la “sindrome del poverino”, grazie anche all’aiuto di professori e allenatori di hockey che hanno capito che Matteo, come ogni altro adolescente, ha bisogno di crescere e maturare attraverso le difficoltà.
“Giocare a wheelchair hockey ti insegna anche”, scrive Matteo, citando Lorenz, l’allenatore della squadra, “che i nostri limiti non sono quelli che ci impone il fisico, ma quelli che ci imponiamo con il cervello e il cuore. Già perché una volta che entri nella squadra c’è una frase che il nostro capitano non vuole sentire, e cioè ‘Non ci riesco’. Una tentazione che forse per chi non è un disabile è difficile da capire. Sta di fatto che, se sei sulle ruote, il ‘non ci riesco’ è un jolly […]. Al Sen Martin non attacca. Tanto per cominciare, qui disabili lo siamo tutti e non esistono giustificazioni che tengano: se c’è da giocare, si gioca. Lorenz non vuole mica che diventiamo tutti fuoriclasse. Quel che conta è mettercela tutta. Sbagliare magari, ma comunque avendoci provato”. Davvero un bel modello per i nostri ragazzi, assai più convincente dei calciatori superpagati che giocano a pallone ma chissà se ancora si divertono come quando erano bambini. Un libro da portarsi al mare, o magari da leggere subito prima del nuovo anno scolastico, da iniziare con grinta ma soprattutto con serenità. Davvero Matteo e la sua storia meritano – ed è un’altra battuta che si legge nel libro – una “sitting ovation”.