Si predica il passaggio alle rinnovabili, ma si torna al carbone
Secondo i calcoli dell’Iea, nel mondo verranno investiti 115 miliardi di dollari nella filiera del carbone, un aumento di 10 miliardi rispetto al 2021. Alla faccia degli accordi sul clima. A guidare questa tendenza sono Cina e India. Ma anche l'Europa sta ritornando alla fonte più tradizionale, messa con le spalle al muro dalla crisi energetica.
E se, in mezzo a tutta la retorica sulla riduzione delle emissioni di gas serra, si tornasse al carbone? Pietra dello scandalo fra le fonti energetiche, il carbone è stato accantonato in tutti gli ultimi piani energetici industriali. Uno dei motivi del linciaggio internazionale di Donald Trump, era proprio la sua difesa di questo ramo della produzione energetica, su cui vivono interi Stati americani. Eppure la tendenza è proprio quella di un ritorno, almeno temporaneo, al più antico dei carburanti.
Secondo i calcoli dell’Iea (International Energy Agency), nel mondo verranno investiti 115 miliardi di dollari nella filiera del carbone, un aumento di 10 miliardi rispetto al 2021, che a sua volta era un 10% in più rispetto al dato del 2020. Insomma, invece che restringersi, l’industria della produzione energetica basata sul carbone è in piena espansione. Come si spiega una simile distanza dalle parole ai fatti?
Prima di tutto, non esistono solo Unione Europea e Stati Uniti. Al di fuori del mondo industrializzato occidentale, India e Cina stanno ancora puntando molto sulle fonti energetiche tradizionali, perché danno la priorità alla fornitura continua di energia e possono permettersi meno progetti basati sugli ideali climatici. Poi perché le circostanze sono cambiate. La prospettiva di non ricevere più gas dalla Russia, a causa della guerra in Ucraina, si traduce nella ricerca di fonti di backup immediatamente disponibili. Nel continente europeo, Regno Unito, Germania e Olanda stanno pensando di rilanciare il carbone, come sostituto del gas, almeno nel breve periodo.
Da notare la distanza sempre maggiore fra i progetti e le realizzazioni: proprio in giugno il Parlamento Europeo ha votato il pacchetto Fit for 55, che include anche la messa al bando dei motori “termici” (tutti i carburanti) entro il 2035 e poi ha votato per eliminare dalla tassonomia delle fonti sostenibili anche gas e nucleare. Nella realtà, invece, si torna al carbone.
Al di fuori dell’Europa, il problema non si pone neppure come dimostra la visita del premier Li Keqiang al nuovo impianto termoelettrico a Zhuozhou nello Hebei. La priorità, secondo il capo del governo cinese, è evitare altri blackout estesi che possono compromettere la velocità della crescita economica (già duramente provata dalla politica Covid zero di quest’anno). Il caldo record riguarda anche l’estate cinese e nella popolosa provincia dello Shandong (che ospita Tsingtao, praticamente il porto di Pechino), a causa dell’uso dei condizionatori, la rete elettrica ha segnato un carico di quasi 93 milioni di kilowatt, battendo tutti i record. Il regime di Pechino ritiene che il Paese non possa permettersi una crisi energetica e tutti i mezzi sono leciti per prevenirla, a prescindere dagli accordi sul clima. D’altra parte la Cina è in procinto di installare (non da ora) 38,4 gigawatt di nuove centrali a carbone, tre volte di più di quanto fatto nel resto del mondo.
L’Europa, prigioniera delle paure climatiche, rischia di rimanere indietro nella competizione globale. A meno che non disattenda (come sta iniziando a fare) le sue stesse regole.