Sì o no, ma senza le sirene estere
Dopo gli endorsement di Economist e Marchionne diventa più che mai importante continuare a pensare con la propria testa. Le ragioni per cui fuori dei confini si auspica il “sì” o il “no” non riguardano il nocciolo della questione, ovvero la crisi dello Stato, ma i riflessi che un esito o l’altro possono avere sul mercato finanziario.
Con il settimanale The Economist che da Londra ci consiglia di votare “no” e Sergio Marchionne che da Cassino si schiera invece per il “sì” nella campagna per il referendum del 4 dicembre siamo ormai a quello che, con parola italiana presa dal linguaggio internazionale della musica, si chiama un “tutti” ossia un caos e un frastuono generali. Ciononostante, e anzi proprio per questo, diventa più che mai importante continuare a pensare con la propria testa.
In un mondo in cui ogni cosa è ormai internazionale è comprensibile che tanto da una parte quanto dall’altra pure forze internazionali prendano posizione riguardo al referendum italiano. In fin dei conti però non conta né deve contare molto. Le ragioni per cui fuori dei nostri confini si auspica il “sì” o il “no” non riguardano il nocciolo della questione, ovvero la crisi dello Stato italiano e i diversi possibili modi di affrontarla, bensì i riflessi immediati che un esito o l’altro possono avere sul mercato finanziario internazionale.
Quelli che adesso vengono benevolmente definiti “i mercati”, e che un tempo invece venivano malevolmente etichettati come “la speculazione”, passano attraverso alcuni giorni di instabilità dopo qualsiasi importante svolta politica per un motivo semplicissimo: la loro stella polare è la stabilità. Ai “mercati” in politica piace in ogni caso la stabilità. E qualunque stabilità va bene, anche quella che assicurava Stalin, per fare uno solo degli esempi possibili. Mettiamo allora tranquillamente in calendario qualche giorno di temporale dei mercati finanziari e lasciamo che a temperarne le conseguenze, in ogni caso di breve periodo, pensino i proverbiali addetti ai lavori. Per parte nostra noi, gente comune, possiamo pensare ad altro. Il che, nel caso specifico, riguarda problemi e prospettive che sono invece di lungo periodo.
Una riforma costituzionale infatti, e tanto più una riforma delle dimensioni e delle ambizioni di quella che sarà al voto il 4 dicembre prossimo, va ben oltre le sorti del governo in carica. Per il bene del Paese occorre perciò prendere con la più grande fermezza le distanze da chi, come da un lato il premier Renzi e dall’altro il Movimento 5 Stelle, premono a favore o contro il “sì” o rispettivamente il “no” per rafforzare o viceversa per far cadere il governo in carica. Con tutto il peso che può venire dalla nostra posizione da sempre contraria a tale governo possiamo perciò affermare senza tema di equivoci che oggi Renzi è il meglio del peggio; ed è dunque opportuno resti al potere almeno finché nel Paese non rinascerà uno schieramento alternativo non solo al centro-sinistra ma anche al Movimento 5 Stelle, il cui preoccupante carattere proto-fascista è evidente.
Non mettiamo dunque in discussione – nel caso di una eventuale e auspicabile vittoria del “no” - la sopravvivenza del governo Renzi, che resta legata fino alla fine della legislatura all’esistenza di una maggioranza parlamentare che lo sostiene. Ciò detto, dal giorno dopo il referendum, se come speriamo vincerà il “no”, occorre mettersi a lavorare per un’autentica riforma in meglio delle nostre istituzioni. Ribadendo quanto più volte abbiamo sottolineato diciamo ancora una volta che il nostro “no” alla riforma parte dal convincimento che non si esce dalla crisi se non puntando invece sulla libertà responsabile delle persone; e quindi se non si assume come stella polare il principio di sussidiarietà. Siamo beninteso ben consapevoli di quante e quali resistenze si frappongono a uno sviluppo del genere.
Si tratta senza dubbio di una svolta epocale: in quasi tutto il mondo più sviluppato, tanto nel campo dell’economia quanto in quello della politica, dall’inizio dell’età moderna complessivamente si è proceduto in direzione opposta. Per lungo che sia stato il cammino che lo Stato moderno ha percorso sin qui, oggi siamo al capolinea. I fatti stanno dimostrando che il centralismo e lo statalismo non funzionano più. Ormai da ogni punto di vista le società e le economie moderne sono troppo complesse per poter venire governate efficacemente in modo centralizzato. La strada in cui il nostro Paese si inoltrerà ulteriormente se passa la riforma Renzi-Boschi è pertanto quella di una disastrosa rincorsa senza fine della spesa e dei controlli.
Nel nostro Riforma costituzionale Renzi-Boschi: perché no abbiamo indicato per quanto ci riguarda i possibili punti-chiave di una riforma costituzionale alternativa a quella che sarà oggetto dell’imminente referendum. Sono a nostro avviso:
1) L’introduzione nella Carta costituzionale del principio di sussidiarietà come fondamento delle istituzioni della Repubblica.
2) Il superamento del monopolio statale (politico) della gestione della previdenza sociale, della scuola, della sanità e dell’assistenza.
3) La ridefinizione di principi-base per una riforma generale del diritto pubblico e quindi dell’amministrazione dello Stato
4) Un nuovo equilibrio dei poteri ben diverso da quello cui Renzi punta a modo suo per via extra-costituzionale con la legge nota col nome di “Italicum”, che in nome della governabilità regala la maggioranza assoluta in Parlamento a chi ha raccolto la maggioranza relativa alle elezioni.
Si può fare insomma molto di meglio garantendo la governabilità della Repubblica e dunque del Paese senza sacrificare la democrazia. Però bisogna farlo.