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LA RIFORMA

Sì alla "Buona Scuola", ma non entriamo nel "merito"

Chissà perché Renzi si è fissato con la "Buona Scuola", tanto da averla messa in cima alle sue priorità. L’ultima alzata d’ingegno è la «meritocrazia»: professori che avanzano in base al merito e non più all’anzianità.  Ma la levata di scudi da parte degli interessati è stata pressoché unanime. E stavolta non hanno torto.

Educazione 23_11_2014
La riforma della scuola premia merito. Sarà così?

Chissà perché Renzi si è fissato con la "Buona Scuola", tanto da averla messa in cima alle sue priorità. Oh, non che l’idea sia malvagia, ma sull’orlo del burrone economico (e della rivolta fiscale) sarebbe logico pensare prima a riempire la pancia, poi le culle, perché le riforme della scuola danno frutti di lungo termine; e, come diceva Keynes, nel lungo termine saremo già morti.

Mi sono diplomato nel primo anno della prima riforma alla vecchia scuolagentiliana: 1969. Grazie a quella novità, io, che ero lo studente più brillante del mio liceo, rischiai seriamente la bocciatura. Da allora non c’è stato ministro della P.I. italiana che non abbia cercato di «riformare» la nave-scuola, che ormai ha tante di quelle toppe da somigliare a una bagnarola da favela brasiliana. L’ultima alzata d’ingegno è la «meritocrazia»: professori che avanzano in base al merito e non più all’anzianità.  Ma la levata di scudi da parte degli interessati è stata pressoché unanime. A una lettura superficiale dei titoli di giornale verrebbe da pensare  a un rigurgito di egualitarismo veteromarxista. Ma non è così. Il fatto è che gli insegnanti sanno bene come andrebbe a finire anche questa iniziativa. Infatti, chi dovrebbe giudicare i «meritevoli»?

Faccio un esempio personale per farla corta, avendo insegnato nelle secondarie per lunghi anni. Era il tempo della «sperimentazione» di Stato e prestavo servizio in un Liceo, appunto, Sperimentale. Mi  fu proposto dal preside di far parte dello staff che doveva tirar tardi (a volte fino a notte, e dopo il normale servizio) quasi tutti i giorni per “lavorare” alla sperimentazione nel nostro Istituto e rendere edotto il Ministero delle iniziative via via intraprese, dei risultati raggiunti ecc. ecc. Cioè, tonnellate di carta contenenti grafici, statistiche, esortazioni retoriche, diagrammi pedagogici in burocratese, auspici, numeri e quant’altro. Il tutto, opportunamente rilegato (lo portavo io in tipografia con la mia auto, dopo aver creato pure il design di copertina), prendeva la via di Roma. L’unico a far carriera, però, fu il preside che, messosi bene in luce nei  piani alti, lucrò un bell’incarico a Roma.

Qualche tempo dopo fu la volta dei corsi di aggiornamento, tenuti da «esperti» universitari che ci intrattenevano per ore, con tanto di slides proiettate, sulle ultime novità in tema di teoria didattica e criteri di valutazione. Si usciva col mal di testa e l’indomani si tornava a insegnare col vecchio sistema, molto più pratico ed efficace. Poi i giudizi di fine anno da numerici fu obbligatorio esprimerli verbali. Con risultati grotteschi: declamavo di fonte al consiglio di classe il giudizio da me formulato su uno studente, e il preside, alla fine, mi chiedeva: «Sì, ma quant’è?». E io: «Sei». E lui scriveva «6» a matita nei suoi appunti. Era, infatti, l’unico modo di avere un quadro generale chiaro e sintetico.

Non so come sia adesso la situazione perché ho lasciato l’insegnamento da parecchi anni, ma non mi sono affatto meravigliato del «niet» degli insegnanti alla ventilata introduzione del «merito» nella loro vita professionale. L’arrière pensée  del corpo docente italiano è, oggi come ai miei tempi: «Tanto, lo so come va a finire…». La soluzione ci sarebbe, naturalmente, ma purtroppo è l’unico punto in cui l’Italia non vuol saperne di imitare l’«Europa» e le «nazioni  più avanzate». Ma è dai tempi in cui pubblicai il mio libro L’ombra sinistra della scuola (Piemme) che lo vado ripetendo. Vogliamo la meritocrazia? Aboliamo, con referendum “svizzero”, la scuola di Stato, baraccone giacobin-napoleonico tanto costoso quanto inconcludente. La scuola sia un’impresa libera, lo Stato si limiti a dare i limiti e non imponga i programmi. La libera concorrenza tra le scuole farà sì che rimangano sulla piazza solo quelle davvero utili ed efficaci (chi vorrebbe iscrivere il pargolo a una scuola in cui impara solo fuffa e «diritti»?).

In tal caso avrebbe davvero senso la cosiddetta «chiamata diretta» degli insegnanti da parte di direttori e presidi (altro sogno renziano). Anzi, in quel caso, io stesso sarei tentato. Mi presenterei al responsabile con sottobraccio tutte le mie pubblicazioni e gli direi: «Ecco qua il mio curriculum. Se mi assume, garantisco un incremento di iscrizioni, in caso contrario sarà libero di cacciarmi. Lo stipendio che chiedo è x, più una percentuale su ogni nuova iscrizione che la mia presenza procurerà». Fantasie? Ma è quel che fanno negli Usa da sempre. Ed è per questo che comandano. Qui da noi, stiamo certi che il «merito» scatterebbe innanzitutto per quelli che si affrettano a introdurre in classe le tematiche lgbt. Ed è per questo che moriamo.