Sessantottini perduti nell’era del conformismo sierologico
I sessantottini di ieri hanno cambiato pelle. Da anticonformisti a conformisti, da sollevatori di folle a subordinati, da rivoltosi a delatori dei vicini. Coloro che ora detengono il potere da demolitori del sistema a difensori dell’ordine costituito, da difensori delle libertà personali a promotori del tracciamento sanitario, da uccisori dei padri a nuovi patrigni.
Maggio 1968. Il mondo occidentale si ritrova travolto da una delle più grandi rivoluzioni culturali e sociali che abbia mai vissuto. Una contestazione globale, una rivoluzione collettiva mossa dalla sinistra culturale e politica, che mira a mettere in crisi certezze ed abitudini di un mondo destinato al tramonto.
Dalle università d’America e d’Europa si alza il grido di una gioventù pronta a “spaccare il mondo” e a sobbalzare gli equilibri che lo hanno retto fino a quel momento. Al grido di “vietato vietare” si alza un’ondata di proteste contro la società borghese, il patriarcato, il principio di autorità accademica, familiare, politica e religiosa. I padri hanno ormai le ore contate, così come i professori (We don’t need no education… Hey teacher, leave us kids alone!”), i politici e i preti (“Cloro al clero!”).
La nascita del movimento LGBT fu salutata con fervoroso applauso dagli intellettuali più influenti. E cominciarono le pressioni per normalizzare ogni tipo di comportamento sessuale nel nome della libertà. Le leggi sul divorzio segnarono l’inizio della fine per la famiglia, un colpo mortale al cuore della società; mentre l’invenzione della pillola anticoncezionale segnò per l’Occidente uno spartiacque nella concezione della sessualità e dell’uomo in generale, decidendo di slegare il piacere dalla procreazione. Il frutto di questa rivoluzione antropologica fu quello di ottenere piacere senza correre il rischio di procreare portando così l’Occidente nel baratro spaventoso dell’attuale inverno demografico mentre si generano, per il miglior offerente, figli senza piacere.
Ma cosa resta oggi della generazione hippie che portava le magliette di Che Guevara per far torto al papà (che finanziava la guerriglia urbana e le occupazioni)? Che fine ha fatto la generazione che sulle note di Bob Marley (Got to have kaya now) inneggiava alla marijuana per “toccare il cielo”.
Cosa resta, a cinquant’anni di distanza, della rivoluzione anti-autoritaria e anti-istituzionale sessantottina? I suoi protagonisti, i giovani figli dei fiori e del libero amore, sono ora gli adulti che insegnano alle università, che governano il paese e che ci istruiscono attraverso quella televisione che solo cinquant’anni fa detestavano. Gli assassini del padre sono gli attuali patrigni. E sono peggiori dei loro odiati progenitori e maestri.
Il fallimento delle tesi rivoluzionarie sessantottine è oramai una evidenza conclamata. Il sessantotto è finito presto, ed è finito male. Ma sebbene lo spirito e il fervore che animò i suoi protagonisti sembrasse destinato a non spegnersi nei cuori e negli animi, la storia dimostra che quello spirito rivoluzionario e anticonformista si è del tutto assopito, non appena i sessantottini hanno occupato il potere politico e culturale, per far spazio ad nuovi ideali: quelli del quieto vivere, della “nuda vita”, alla quale sacrificare il sacrificabile.
Quelli che scendevano in piazza per le minoranze e gli emarginati, per abbattere ogni tipo di barriera sociale, oggi si ingozzano di selfie e godono della morte dei non vaccinati ai quali chiedono di pagarsi le cure in caso di malattia.
Quelli che “No alla polizia nelle università” ora esigono il controllo del lasciapassare per accedere agli atenei e alle scuole. E quelli che combattevano per una “università di massa” contro una “università d’elite”, quelli del potere studentesco contro l’autoritarismo accademico, ammettono ora solamente professori e studenti muniti di lasciapassare, mettendo alla porta i non allineati e sanzionando con misure economiche e disciplinari coloro che non si adeguano.
Quelli che “mettete fiori nei vostri cannoni” esigono oggi un autoritarismo militarizzato, il controllo sociale tramite app di tracciamento e un regime di polizia a sostegno delle politiche sanitarie.
Quelli che “vogliamo pensare” hanno smesso di farlo per delegare alla politica le ragioni della propria quotidianità.
Quelli che invocavano la liberazione da ogni controllo autoritario sottopongono ora i loro simili alla censura, alle discriminazioni e al controllo sanitario di un governo sempre più vigilante e autoritario.
Quelli che “Un nuovo modo di fare produzione sotto le presse mettiamoci il padrone”, impediscono ai lavoratori di entrare nelle loro aziende, bloccando gli stipendi, minacciano sanzioni economiche e conseguenze disciplinari.
Quelli che condannavano a morte ogni principio di autorità, ora invocano l’ossequiosa sottomissione alle autorità politiche, nazionali e sovranazionali, e chiedono di avere “fede” nella scienza.
Quelli che detestavano i mercati affidano ora la loro vita all’uomo dei mercati finanziari, offrendogli carta bianca e definendolo l’uomo “della provvidenza”.
Quelli che insultavano i politici con “A piazzale Loreto c’è ancora posto” e “Nixon boia, Andreotti è la sua troia” saltano ora sulla poltrona se qualcuno osa criticare il Presidente della Repubblica e quello del Consiglio dei Ministri artefici dell’attuale crisi sociale in cui versa il paese.
Quelli che “lotta continua” per la “democrazia diretta” non si scompongono per decenni di governi non eletti ma decisi da accordi di Palazzo col beneplacito di compagni Presidenti sceltissimi, né hanno da eccepire sulla delegittimazione del Parlamento a favore dei DPCM con la scusa di uno stato di emergenza.
Quelli che criticavano la società del benessere e lo sviluppo delle tecnologie in nome di un naturalismo esistenziale, affidano oggi la loro vita ai telefonini dove conservano gelosamente, lasciandole a disposizione del fornitore dei servizi, big tech e Stato, i dati sensibili in barba alle loro battaglie sulla privacy.
Quelli che “Il corpo è mio” offrono ora il loro braccio alla scienza su richiesta delle autorità politiche per sottoporsi al tentativo di fermare il contagio da Covid19 mantenendo lontano dalla mente quei dubbi sollevati da una parte del mondo scientifico e le cronache di effetti nefasti evidenziatisi in alcuni dei valorosi e sfortunati volontari.
I pacifisti che detestavano i conflitti e lottavano per la liberazione delle classi meno abbienti, sono oggi gli artefici di un nuovo conflitto sociale che alimentano con slogan denigratori, violenza verbale e leggi discriminatorie contro una minoranza non allineata.
I protagonisti della controcultura di quegli anni occupano ora i luoghi del potere politico e culturale chiedendo conformismo totale e uniformità in un paese dove non essere di sinistra significa per un politico, un accademico o un intellettuale avere la strada in salita e il fucile partigiano puntato sulla tempia.
I sessantottini di ieri stanno fomentando una nuova lotta di classe. Solo che ora stanno dalla parte delle autorità che hanno detestato e avversato.