Serbia, il trionfo dei nazionalisti è premessa di nuove tensioni
Domenica, alle elezioni parlamentari serbe, ha vinto il Partito progressista legato al presidente Vučić. Le opposizioni di centrodestra hanno scelto di boicottare il voto, considerato una farsa. Il nazionalismo di Vučić, che ora è forte di una maggioranza qualificata in parlamento, può innescare una serie di tensioni con gli Stati ex jugoslavi
Domenica 21 giugno circa sei milioni e mezzo di cittadini della Repubblica di Serbia sono stati chiamati alle urne per eleggere i deputati dell’Assemblea del popolo, il Parlamento monocamerale della Serbia, nonché i rappresentanti di assemblee elettive a livello locale.
Il dato politico rilevante di queste elezioni è il trionfo, già previsto dai sondaggi, della lista collegata al Presidente della Repubblica e leader del Partito progressista serbo, Aleksandar Vučić, che secondo i dati provvisori ha ottenuto circa il 61% dei voti e 189 deputati su un totale di 250. Al secondo posto si sono piazzati i socialisti (ex comunisti) con l’11% dei voti con 32 deputati, nelle precedenti legislature alleati di governo di Vučić. Solamente un’altra lista è riuscita a superare lo sbarramento del 3% per potere entrare in Parlamento, si tratta della Lega patriottica “SPAS” guidata dall’ex pallanuotista di fama mondiale Aleksandar Šapić, attualmente sindaco del comune di Novi Beograd, la quale ha ottenuto il 3,73% dei suffragi per dodici deputati.
Non ha superato la soglia di sbarramento il Partito radicale serbo del criminale di guerra Vojislav Šešelj – di questo partito un tempo faceva parte anche Vučić – mentre gli altri partiti di opposizione di centro e di destra che hanno boicottato questa tornata elettorale considerandola non libera e frutto di una situazione politica semi-dittatoriale egualmente cantano vittoria a motivo della scarsa affluenza alle urne, circa il 49%, sette punti percentuali in meno rispetto alle precedenti elezioni parlamentari del 2016.
Le cancellerie occidentali guardano al trionfo di Vučić con malcelato distacco, perplesse di fronte a un personaggio che in teoria come presidente avrebbe funzioni e poteri fortemente limitati, e che invece è onnipresente nei media e parla della politica e dell’economia serba come se fosse lui a guidare il governo, e non il primo ministro Ana Brnabić.
È quindi assai probabile che la luna di miele dell’Europa con il presidente serbo sia già terminata, e che il tentativo europeo di strappare la Serbia dalla sfera di influenza russa lusingando il leader serbo e mettendo un tappeto rosso per accelerare l’ingresso della Serbia nell’Unione Europea sia fallito di fronte alle evidenti criticità di un personaggio che negli ultimi anni è stato presentato come un sincero democratico, fingendo di dimenticare i suoi violenti interventi nazionalistici degli anni Novanta - in Parlamento nel 1995 chiese l’uccisione di cento musulmani bosniaci per ogni serbo bosniaco che avesse perso la vita nel corso dei raid della NATO contro la Republika Srpska - e le sue proteste contro l’arresto del criminale di guerra serbo-bosniaco Ratko Mladić nel 2008.
Del resto tra il criminale di guerra Vojislav Šešelj e l’attuale presidente, un tempo suo delfino, vi sono solamente differenze di strategia: il primo è un cetniko di vecchio stampo, pronto a invadere in qualsiasi momento i territori degli Stati sovrani succeduti alla Jugoslavia per realizzare la Grande Serbia, mentre il secondo ha compreso che il quadro storico è ormai cambiato e intende realizzare lo stesso disegno di supremazia serba sui Balcani occidentali all’interno dell’Unione Europea e del cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale.
Tuttavia, nel quadro geopolitico dei Balcani ancora caratterizzato da una fortissima tensione, a ostacolare i piani di Vučić ci si è messo di mezzo ora anche il Montenegro. Mentre infatti i rapporti con la Bosnia-Erzegovina e la Croazia sono relativamente stabili – a Zagabria ormai i periodici insulti contro la Croazia di alcuni ministri serbi vengono considerati come un nuovo aspetto del ‘folclore regionale’, e quindi le autorità croate evitano di rispondere per le rime – negli ultimi anni in Montenegro i rapporti tra montenegrini e serbi si sono gravemente deteriorati. A gettare benzina sul fuoco ci ha poi pensato il presidente montenegrino Milo Djukanović, il quale ha fatto approvare una nuova legge sulla libertà religiosa che ha fatto andare su tutte le furie i massimi esponenti politici e religiosi della Serbia, provocando numerose manifestazioni dei serbi del Montenegro guidati dai loro pope, poiché tale legge prevede tra l’altro il rafforzamento di una Chiesa ortodossa autocefala montenegrina a danno di quella serba e l’espropriazione di gran parte dei beni, ivi inclusi monasteri ed edifici di culto, della Chiesa ortodossa serba qualora non questa possa dimostrarne la proprietà prima del 1918, anno di nascita del Regno dei serbi, croati e sloveni (in seguito diventato Regno di Jugoslavia), guidato dalla dinastia serba dei Karadjordjević – un atto evidentemente di natura nazionalistica e non religiosa, poiché tra l’altro Djukanović è ateo e neppure battezzato.
Vi è poi il problema irrisolto del Kosovo; sebbene la Serbia negli ultimi mesi possa vantare successi diplomatici non di poco conto sulla questione – il Kosovo non è stato ammesso nell’Interpol, e su pressione europea e americana il governo kossovaro ha abolito i dazi del 100% imposti negli scorsi anni sulla merce proveniente dalla Serbia -, la situazione generale vede la Serbia ormai messa in un angolo e sul punto di cedere.
Tra l’altro, il numero di parlamentari superiore ai due terzi ottenuti dal suo partito in occasione delle elezioni di domenica paradossalmente mette Vučić ancora più in difficoltà, poiché in questo modo in caso di cedimento del presidente sulla questione kossovara esisterebbe anche la maggioranza per modificare la Costituzione e sancire l’addio definitivo all’ex provincia a maggioranza albanese, e Vučić non potrebbe più richiamarsi all’impossibilità di tale atto da parte del Parlamento serbo che egli controlla. Messo alle strette, il presidente sta cercando disperatamente di salvare almeno le aree del Kosovo a maggioranza serba proponendo di scambiare tale territorio con un’area della Serbia meridionale, la valle di Preševo, a maggioranza albanese.
Tuttavia, un eventuale riconoscimento del Kosovo da parte del governo serbo – soprattutto nella variante che non prevedesse uno scambio di territori tra la Serbia e il Kosovo - non porterebbe la pace nell'area balcanica, bensì farebbe riesplodere il violento nazionalismo serbo che ora Vučić riesce a tenere a bada. A farne le spese non sarebbe solamente l'attuale presidente, bensì il fragilissimo e precario equilibrio che tiene insieme le varie componenti etniche in Bosnia-Erzegovina, poiché spingerebbe i dirigenti della Republika Srpska ad accelerare il processo di secessione, per poi essere seguiti con tutta probabilità anche dai loro attuali alleati croati, che come i serbi mal digeriscono il loro status all'interno della Bosnia-Erzegovina. Tutto questo potrebbe poi risvegliare anche il nazionalismo albanese, e la Macedonia del Nord e il Montenegro potrebbero diventare nuovi focolai di tensione e violenza di tipo etnico.