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IL LIBRO

Senza più padri né madri: è il futuro, bellezza

La vita umana al tempo della sua riproducibilità tecnica. Di questo parla il primo romanzo della milanese Susanna Manzin, Il destino del fuco. Il racconto si rivela presto un ingegnoso espediente per smascherare le conseguenze assurde della fecondazione artificiale: un mondo dove padri e madri sono scomparsi.

Cultura 01_09_2014
La copertina del libro Il destino del fuco

Nell’Ottocento furoreggiavano i cosiddetti feuilleton, romanzi zeppi di intrighi, contorte vicende familiari, saghe complicatissime di poveri che un colpo di scena faceva ritrovare nobili o nobili che un colpo di scena gettava sul lastrico. Quasi sempre spuntava un figlio segreto o perduto, che ribaltava la situazione e permetteva all’autore di sciogliere nodi ingarbugliati con un coup de theatre finale. A questo tipo di fiction non si sottraevano neppure i romanzieri più celebrati, e anche il più volte portato sugli schermi Jane Eyre finisce con un’eredità inaspettata che rovescia i tavoli.

Ma quella era fantasia. Oggi la scienza l’ha realizzata (infatti, è appropriato chiamarla fantascienza). Sì, perché grazie alla fecondazione eterologa non sai mai di chi sei figlio e un padre sconosciuto può saltar fuori quando meno te l’aspetti. Infatti, un donatore anonimo può fecondare un sacco di donne, col risultato di mettere in giro un sacco di ragazzini che non sanno di avere lo stesso padre. L’idea viene utilizzata da un’esordiente nel campo della narrativa, Susanna Manzin, che ci ha imbastito attorno il romanzo Il destino del fuco. Qui la sorte fa confluire nello stesso agriturismo, negli stessi giorni, un gruppo eterogeneo di persone, due delle quali sono donne che hanno fatto ricorso alla fecondazione eterologa. Ne hanno avuto due figli, adesso ventenni, un maschio e una femmina. I due giovani sono amicissimi, e forse qualcosa di più. Dalle conversazioni udite, il padrone dell’agriturismo, fatti due conti, scopre che il padre dei due giovani è lui, perché vent’anni prima aveva donato il seme nella clinica in cui quelli sono nati. Perciò sono fratelli e in procinto di commettere incesto. 

La scoperta lo mette in subbuglio e il subbuglio porta allo svelamento dell’inghippo. Tragedia incombe. Questa è l’amara riflessione della ragazza, la cui madre l’ha concepita artificialmente per motivi ideologici, quando la realtà le si palesa: «Se penso che si mettono al mondo bambini da un solo padre, tutti coetanei, nella stessa città. E nessuno pensa che quei bambini potranno un giorno conoscersi, frequentarsi, innamorarsi (…). E pensare che mia madre mi ha riempito la testa di ecologia. E io sono stata fatta in un laboratorio». E adesso? Già, perché il vero padre tiene famiglia felice ed ha pure due bambini. Così, l’agriturismo diventa un castello dei destini incrociati e, comunque vada a finire (ovviamente, non diremo nulla del finale), sono tutti perdenti. Una storia del genere, la si giri come si vuole, non può finir bene, perché quando l’apprendista stregone interviene sul corso naturale delle cose il risultato è il danno. Irrimediabile. 

La legge avalla il «diritto al figlio», ma deve anche avallare il diritto del figlio, divenuto maggiorenne, a sapere chi sia suo padre. Con tutto quel che ne deriva in termini legali, ricco pasto per avvocati e notai. Certo, la domanda del romanzo è: e se due, senza sapere di essere fratelli, procreano? La risposta è facile: se, come presumibile, nasceranno figli malformati, si può ricorrere all’aborto. Oppure attendere con pazienza che la Scienza risolva anche questo problema con qualche altra diavoleria. Attendiamo dunque il momento in cui la situazione sociale sarà così ingarbugliata da richiedere una decisione (legislativa) drastica: i figli si faranno solo sotto controllo e selezione statali, la copula servirà solo per divertirsi. Brave new world. Eh, Aldous Huxley era davvero un profeta, vedrete che prima o poi gli faranno il monumento a cavallo. 

Per quanto riguarda la nostra scrittrice esordiente, ci permettiamo un paio di consigli. Un plot del genere forse avrebbe richiesto un maggiore scavo psicologico dei personaggi e, dunque, l’impiego di un maggior numero di pagine. Infine, un appropriato editing avrebbe ovviato ad alcune ripetizioni. Ma questo è solo un problema di scrittura, trascurabile in un’opera prima e risolvibile in un’opera seconda.