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L'IO E LA CRISI DELLA MODERNITA'/3

Senza il Mistero, la realtà diventa un carcere

Se l'uomo di oggi tenta di evadere la realtà, con metodi esotici o virtuali, è perché la vive come un carcere. Fin dalla fine dell'Ottocento, il dilagare della cultura atea ha tolto profondità alla realtà, spingendo grandi artisti come Pirandello, Van Gogh e Munch a rappresentare la più completa angoscia esistenziale.

Cultura 16_10_2016
Pirandello, Uno nessuno centomila

L’uomo oggi tenta di evadere in ogni modo dal reale in mondi esotici o virtuali. Il desiderio di evasione è diretta conseguenza di un cammino che ha portato l’uomo a percepire la realtà come carcere, ragnatela, cratere magmatico e incomprensibile da cui fuggire. Come è potuto accadere questo? Perché quella realtà, che era percepita nelle epoche passate (pensiamo al Medioevo) come luogo dell’avventura e della scoperta, è divenuta oggi carcere e luogo ristretto da cui scappare? 

L’ardore del pellegrino medioevale, la gratuità profusa nella costruzione di grandi cattedrali sono state sostituite da una triste inerzia, deprivata della sua energia vitale e del suo impeto conoscitivo. Ecco perché quella realtà che appariva come luogo di avventura, cioè di accadimento di qualcosa di inaspettato e di esterno, di soprannaturale, quella realtà che si spalancava ad una dimensione più grande rispetto a quella delle mura visibili, del bosco attraversabile, nella contemporaneità si fa sempre più stretta. Per questo motivo l’aria è sempre meno respirabile e la realtà è percepita come sempre più coercitiva. Il paradosso è che questo è accaduto proprio nell’epoca in cui le scoperte scientifiche e astronomiche dilatavano gli spazi conosciuti. Un mondo sempre più piccolo caratterizza proprio gli anni in cui si sono scoperti la quarta dimensione e la presenza di miliardi di stelle. Nell’epoca antica e medioevale, invece, questa «piccola aiuola» del mondo, per dirla con nota espressione dantesca, riservava al suo interno una moltitudine di prodigi e di fatti tutti da scoprire.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tre grandi artisti, Pirandello, Van Gogh, Munch, anticipano in diverse arti quella percezione di crisi dell’uomo che caratterizzerà gran parte dei decenni successivi. 

Pochi come Pirandello sono riusciti a descrivere il dramma della contemporaneità e la condizione esistenziale dell’uomo. Con queste parole, a soli ventitré anni, Pirandello si rivolge alla sorella Lina il 31 ottobre del 1886: «Noi siamo come i poveri  ragni, che per vivere han bisogno d’intessersi in un cantuccio la loro tela sottile, noi siamo come le povere lumache che per vivere han bisogno di portare a dosso il loro guscio fragile, o come i poveri molluschi che vogliono tutti la loro conchiglia in fondo al mare. Siamo ragni, lumache e molluschi di una razza più nobile – passi pure – non vorremmo una ragnatela, un guscio, una conchiglia - passi pure – ma un piccolo mondo sì, e per vivere in esso e per vivere di esso. Un ideale, un sentimento, una abitudine, una occupazione – ecco il piccolo mondo, ecco il guscio di questo lumacone o uomo – come lo chiamano. Senza questo è impossibile la vita». Le immagini sono forti, adatte a rappresentare un io che si sente scoperto, a disagio, che necessita di una protezione, di una parte da interpretare, di un’abitudine cui affezionarsi, di un lavoro da svolgere, di un luogo dove abitare e creare dei legami, di una tela in cui essere imprigionati e imprigionare al contempo qualcun altro. Del resto, noi tutti conosciamo la fragilità della tela e della conchiglia, quindi a nessuno di noi sfuggono la labilità e la fugacità delle protezioni che ci costruiamo. Due dita, con leggera pressione, potrebbero demolire la nostra illusoria casa. La ragnatela e la conchiglia sono tanto fragili quanto limitative e coercitive, perché il ragno non si può allontanare troppo dalla tela intessuta. Quindi la realtà con cui ci proteggiamo, che diventa per noi luogo, è al contempo carcere da cui poi non si riesce ad uscire.

Situazione analoga descrive pressoché negli stessi anni il grande pittore Van Gogh (1853-1890), geniale innovatore artistico, tanto incompreso in vita quanto apprezzato e rivalutato in morte. In una delle lettere al fratello l’artista usa l’immagine dell’uccellino in gabbia per rappresentare la propria condizione esistenziale. In queste parole emergono la sua ansia e il suo anelito di libertà e di compimento totali: «C'è fannullone e fannullone. C'è chi è fannullone per pigrizia o per mollezza di carattere, per la bassezza della sua natura, e tu puoi prendermi per uno di quelli. Poi c'è l'altro tipo di fannullone, il fannullone per forza, che è roso intimamente da un grande desiderio di azione, che non fa nulla perché è nell'impossibilità di fare qualcosa, perché gli manca ciò che gli è necessario per produrre, perché è come in una prigione, chiuso in qualche cosa, perché la fatalità delle circostanze lo ha ridotto a tal punto; non sempre uno sa quello che potrebbe fare, ma lo sente d'istinto: eppure sono buono a qualcosa, sento in me una ragione d'essere! […] Un uccello chiuso in gabbia in primavera sa perfettamente che c'è qualcosa per cui egli è adatto, sa benissimo che c'è qualcosa da fare, ma che non può fare: che cosa è? Non se lo ricorda bene, ha delle idee vaghe e dice a se stesso: «Gli altri fanno il nido e i loro piccoli e allevano la covata», e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane chiusa e lui è pazzo di dolore». Van Gogh è tristemente cosciente dell’incomprensione di cui è fatto oggetto, rappresentata dal dileggio che gli uccelli liberi dalla gabbia gli rivolgono: «”Ecco un fannullone» dice un altro uccello che passa di là, «quello è come uno che vive di rendita”. […] Ma lui sta a guardare fuori il cielo turgido carico di tempesta, e sente in sé la rivolta contro la propria fatalità. “Io sono in gabbia, sono in prigione, e non mi manca dunque niente imbecilli? Ho tutto ciò che mi serve!». 

Pochi anni più tardi, nel 1893, il pittore norvegese E. Munch (1863-1944) dipinge L’urlo, che è divenuto simbolo dell’angoscia esistenziale, della solitudine in cui si trova l’uomo e dell’incomunicabilità che contraddistingue i rapporti umani. Un volto scarnificato emette un grido che si propaga come un’onda fino a riempire tutta la scena senza per questo toccare e coinvolgere i personaggi rappresentati. Nel dipingere Munch accompagna l’opera con la riflessione: «Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di un rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando». Non ci sfuggirà la somiglianza tra la riflessione di Munch e quanto scrive s. Paolo sulla natura e sulla realtà che sembrano gemere come una donna per le doglie del parto. La differenza sta tutta lì, però, nella prospettiva della sofferenza e del pianto: in s. Paolo il dolore è un’attesa per un evento grande, in Munch non trova risposta.  

La ragnatela, il carcere della forma e dell’opinione altrui, l’urlo che si propaga senza essere udito da nessuno sono alcune delle immagini che gli artisti utilizzano per descrivere la condizione esistenziale dell’uomo, così come è percepita tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando il clima culturale dominante descrive il mondo in termini fisici, materialistici e fisiologici, eliminando la dimensione del Mistero, ovvero la dimensione della profondità della realtà.