Sentenza choc. I figli di genitori separati non possono più frequentare una scuola cattolica
I figli di una coppia separata saranno trasferiti dalla scuola cattolica che frequentavano a un istituto pubblico, per garantire una istruzione "neutrale". La mamma voleva tenerli lì dove erano iscritti. Il padre voleva mandarli alla statale. Alla fine ha deciso un giudice del tribunale di Milano. Con una sentenza nella quale traspaiono tutti i pregiudizi giacobini contro la scuola "privata", vista come un lusso o un capriccio dei genitori, con buona pace della legge sulla parità scolastica.
Si è diffusa ieri una notizia, ripresa con compiacimento sulle pagine di cronaca milanese de la Repubblica, che merita ampio commento. Si tratta infatti di un episodio davvero sintomatico del peso che l’eredità giacobina conserva tuttora nella cultura progressista del nostro Paese, nonché dello spazio che essa trova in influenti settori della magistratura.
Con riguardo al caso dei due figli di una coppia di coniugi separati che fino alla separazione frequentavano una scuola paritaria di orientamento cattolico, il tribunale di Milano (IX sezione civile) era stato chiamato a decidere se dovessero continuare a frequentare tale istituto, come richiesto dalla madre, o passare a una scuola statale, come richiesto dal padre. Nella sentenza, firmata lo scorso 18 marzo dal giudice Giuseppe Buffone, si prende le mosse dal convincimento secondo cui non si può affatto sostenere che la scuola privata risponda "al preminente interesse del minore", poiché ciò equivarrebbe a dire che le istituzioni di carattere privato sono migliori di quelle pubbliche. Pertanto, conclude il giudice, "la decisione dell'Ufficio giudiziario non può che essere a favore dell'istruzione pubblica".
Al di là del motivo addotto, su cui ci soffermeremo più avanti, fa in primo luogo specie l’uso della dicotomia pubblico/privato nel suo più arcaico significato giacobino; e ciò a oltre quindici anni dall’entrata della legge n. 62 del 10 marzo 2000 sulla parità scolastica, che introduce anche nell’ordinamento italiano il principio del comune carattere pubblico sia della scuola statale che della scuola paritaria (ossia non statale ma riconosciuta dallo Stato). Che la notizia di tale svolta sia ignota a dei magistrati, ovvero a persone che hanno la tutela della legalità come loro primo dovere, non può che indurre a meste riflessioni. Entrando poi nel merito fa rabbrividire l’idea che le “istituzioni di carattere pubblico” (ovvero statale) siano ipso facto migliori di quelle non statali. Potevano crederlo i deputati dell’Assemblea nazionale della Francia rivoluzionaria quando nel 1791 istituirono il monopolio statale della scuola pubblica gratuita imponendo così il modello infine giunto sino a noi; ma come si fa in buona fede a crederlo ancora oggi? Eppure a quanto pare nella IX sezione civile del tribunale di Milano ci credano ancora.
Non c’è tuttavia da fermarsi qui. Andando avanti nell’analisi delle motivazioni della sentenza vi si trovano tracce di altri pregiudizi altrettanto interessanti. Tra questi anche il preteso valore educativo della neutralità della scuola statale rispetto all’orientamento di quella non statale: un giudizio tipicamente ideologico tenuto conto che in effetti la scuola statale non è mai stata neutra né tanto meno lo è adesso. E che inoltre risulta oggi quanto mai comprovato che una scuola con una sua esplicita identità non compromette affatto la libertà degli allievi ma anzi la stimola. La madre aveva poi insistito perché fosse garantita ai bambini "un'istruzione in continuità con quanto fatto fino a quel momento" benché, dopo la separazione, i due genitori fossero venuti a trovarsi in una difficile situazione economica. Non sia mai: ritenendo che mandare i figli in una scuola paritaria sia essenzialmente un lusso, il giudice ha deciso che perciò vi si dovesse rinunciare: "pretendere infatti che i figli continuino a godere del medesimo benessere che prima poteva essere garantito costituisce l'espressione di un 'diritto immaginario' che non trova tutela nell'ordinamento giuridico". Sulla base di tale complesso di settecentesche certezze il tribunale ha quindi concluso che "laddove sussista conflitto dei genitori separati sulla frequenza dei figli tra scuola privata e pubblica", in mancanza di "evidenti controindicazioni", allora "la decisione dell'Ufficio giudiziario non può che essere a favore dell'istruzione pubblica".
Temendo che da sé la sentenza non parlasse abbastanza la Repubblica ha poi anche cercato il conforto di un’esperta di sua fiducia: Laura Cossar, avvocato di diritto di famiglia e membro dell'ufficio di presidenza dell'Ordine degli avvocati di Milano. Secondo lei, che condivide “in pieno” la sentenza, “Capita che la scuola privata risponda a un bisogno identitario del minore, come gli istituti ebraici per i figli di ebrei ortodossi, o gli istituti «nazionali» a cui gli stranieri iscrivono i figli, ma sono eccezioni”. Più spesso “uno dei genitori fa della scuola privata una questione di appartenenza a una élite o un capriccio", e così sia. Secondo l’esperta de la Repubblica, insomma, chi c’è dietro agli oltre 993mila iscritti alle scuole paritarie, circa l’11% del totale, fra cui quasi 52 mila stranieri? Un manipolo di ebrei ortodossi e un paio di milioni di miliardari capricciosi.