Seneca e San Paolo sugli schiavi: sono nostri fratelli
Schiavi e uomini liberi sono, in realtà, fratelli, condividono lo stesso tetto, sono compagni nel cammino dell’esistenza. Lo scriveva Seneca pensando al comune destino di schiavi e liberi: la morte. Anche per San Paolo, gli schiavi sono fratelli. Non perché accomunati dall'incontro con la morte, ma fratelli trasformati nel vattesimo in Cristo.
In una famosa lettera (Epistulae ad Lucilium V, 47) Seneca esordisce:
Con piacere ho saputo da coloro che vengono da te che tu vivi familiarmente con i tuoi schiavi: questo si addice alla tua saggezza, questo alla tua educazione. «Sono schiavi». Anzi, uomini. «Sono schiavi». Anzi, compagni di vita. «Sono schiavi». Anzi, umili amici. «Sono schiavi». Anzi, compagni di schiavitù, se terrai presente che altrettanto è concesso alla sorte nei confronti di entrambi.
Schiavi e uomini liberi sono, in realtà, fratelli, condividono lo stesso tetto, sono compagni nel cammino dell’esistenza, sono accomunati dall’incontro finale con lo stesso destino: la morte. La consapevolezza della precarietà dell’esistenza dovrebbe affraternare ogni uomo; è una coscienza che scaturisce ogni volta che l’uomo si pone di fronte all’altro pensando alla sua fragilità, al desiderio di felicità e di amore, come quando Ungaretti, sottoposto in guerra all’esperienza di una lancinante sofferenza, scorge la sua stessa fragilità e il suo stesso ardore di vita e di amore nel nemico, suo fratello e scrive:
Nella mia poesia non c’è traccia di odio per il nemico, né per nessuno; c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione.
Seneca considera ridicolo e superbo l’atteggiamento di quanti non cenano con i propri schiavi considerandoli inferiori. Mentre il padrone mangia e gonfia lo stomaco fino a star male, lo schiavo non può neppure battere i denti per parlare. Nel caso in cui parli, viene bastonato, se tossisce, viene ad ogni modo punito. La conseguenza è che lo schiavo che non può parlare liberamente parlerà di nascosto, lamentandosi del padrone. Quanti, invece, possono esprimere i propri pensieri in presenza del padrone e sono trattati con umanità daranno la vita per lui.
I proverbi, ci avverte Seneca, possono talora sbagliare, come quello che ci ricorda che ci sono tanti nemici quanti sono gli schiavi. In realtà, sono i padroni a rendere nemici gli schiavi, con comportamenti crudeli, disumani, come se fossero rivolti a bestie.
A quali trattamenti disumani allude Seneca? Durante le cene, alcuni schiavi devono pulire gli sputi dei convitati, altri devono raccogliere il vomito degli ubriachi, altri ancora devono mescere il vino agghindati con abiti femminili.
Il padrone non dovrà ottenere l’obbedienza incutendo timore, ma conquistando il rispetto:
Chi è rispettato, è anche amato: l'amore non può essere mescolato con la paura.
Il padrone ritiene umiliante cenare gli schiavi, perché sarebbe una menomazione della propria superiorità. Il monito nei confronti di quanti la pensano così è severo:
Vuoi tu tener presente che costui che chiami tuo schiavo, nato dallo stesso seme gode dello stesso cielo, respira allo stesso modo, vive allo stesso modo, muore allo stesso modo! Tanto tu puoi vedere lui libero quanto lui te schiavo.
Quante persone che sono baciate prima dalla buona sorte poi decadono e perdono tutto! Sono parole sempre di grande attualità. Ciascuno di noi potrebbe arrivare a vivere quella condizione che oggi tanto disprezza. Per questo Seneca vuole sintetizzare il proprio pensiero con un insegnamento sempre valido:
Vivi col tuo inferiore nel modo in cui vorresti che il superiore vivesse con te. Sono parole che ricordano quelle di Gesù (Matteo 7, 12): Tutte le cose dunque che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa è la legge e i profeti.
Le parole di Seneca trovano una consonanza anche in quelle di san Paolo nella lettera ai Galati:
Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa.
Grande sintonia vi è tra Seneca e san Paolo sull’uguaglianza tra liberi e schiavi, anche se è doveroso riflettere che per il filosofo latino l’uguaglianza deriva dalla condizione di essere entrambi, schiavi e liberi, assoggettati allo stesso destino (la morte), mentre per san Paolo l’uguaglianza proviene da una sorta di trasformazione ontologica che investe ciascuno che è battezzato in Cristo. Questa è la grande rivoluzione del cristianesimo. San Paolo non contesta la schiavitù, con il proposito di eliminarla, ma indica uno sguardo nuovo al fratello, come appare nella lettera indirizzata a Filemone in cui gli raccomanda con queste parole il servo Onesimo, prima fuggito e ora rimandatogli:
Per questo, pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, preferisco pregarti in nome della carità, così qual io sono, Paolo, vecchio, e ora anche prigioniero per Cristo Gesù; ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene, Onesimo, quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me. Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore. […] Forse per questo è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore.
Marta Sordi (1925-2009), grande studiosa dell’antichità e del mondo romano, si era convinta che san Paolo e Seneca si fossero conosciuti e che fosse autentico il carteggio tra i due. Scriveva al riguardo:
Anch’io all'inizio ero convinta che fosse falso. Ma studiandolo con attenzione, e inserendolo nella nuova cronologia, ho cambiato parere. Due lettere sono sicuramente aggiunte a posteriori, diverse dalle altre per stile e lessico, e hanno per così dire trascinato con sé il giudizio sull'intera opera. Ma se eliminiamo queste due il resto io credo sia autentico. Si tratta di una corrispondenza amichevole, sovente poco più che biglietti, con allusioni a vicende quotidiane, a conoscenti comuni: se un falsario avesse voluto inventarsi un carteggio fra due personaggi del genere avrebbe scelto temi più impegnativi, non le pare? Poi c'è la questione dello stile: è un cattivo latino, si osserva, pieno di grecismi, segno che la lingua madre di chi le ha scritte era il greco. Ma, attenzione: i grecismi compaiono soltanto nelle lettere di Paolo, non in quelle di Seneca, che anzi in una gli rimprovera bonariamente il suo latino scadente e gli dà qualche consiglio su come migliorarlo.
Seneca arriva ad affermare che le amicizie non si trovano necessariamente nel foro e tra i personaggi altolocati. Se alcuni sono schiavi dal punto di vista della condizione sociale, altri sono schiavi sotto altre forme:
uno della libidine, uno dell'avidità, uno dell'ambizione, tutti della speranza, tutti della paura.