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Seneca e l'arte del chiedersi se siamo davvero felici

Nel De Vita beata la riflessione di Seneca è particolarmente attuale in un mondo come quello contemporaneo in cui è associata la dimensione della felicità al possesso o all’edonismo. 

Cultura 13_01_2019

Fin dall’antichità molte opere furono dedicate alla domanda di felicità a riprova del fatto che essa caratterizza l’animo umano di ogni tempo e luogo. Pensiamo alla Lettera sulla felicità di Epicuro indirizzata a Meneceo o alle tante pagine di Platone e di Aristotele sul tema.

Seneca, l’unico importante letterato latino che possa essere considerato davvero filosofo, scrisse il trattato De vita beata (Sulla felicità), dedicandolo al fratello Novato, qui chiamato Gallione (nome assunto per adozione dopo il 52 d. C.). 

Una parte dell’opera appare una sorta di apologia, soprattutto nel finale in cui Seneca sembra difendersi dalle accuse mossegli da P. Smilio di predicare una morale che poi non rispetta, in quanto vive in mezzo alle ricchezze e agli agi della corte. Il filosofo afferma qui che la felicità risiede nella virtù, unico bene che possa rendere gli uomini felici. Gli altri beni possono, invece, essere pericolosi se adescano l’animo inducendolo alla ricerca della voluptas (il piacere) che può portare alla rovina. Indubbiamente, forte è la polemica di Seneca, che aderisce alla filosofia stoica, contro l’epicureismo. Esistono, però, anche dei bona indifferentia, ovvero che in sé non hanno valore, non portano l’uomo ad essere felice, ma sono, comunque, preferibili agli incommoda ovvero agli svantaggi. Le ricchezze non sono certo pericolose per il saggio, che non ne diventa schiavo, ma che sa avvalersene come mezzo.

Non intendiamo, ora, addentrarci oltre nella discussione filosofica e nella contrapposizione dialettica tra stoicismo ed epicureismo.

Meritano, invece, una particolare menzione le riflessioni metodologiche di Seneca riguardo alla ricerca della felicità. Le sottoponiamo qui all’attenzione di tutti, perché appaiono attuali e significative sia per il mondo dei giovani che per quello degli adulti.

Al riguardo colpisce particolarmente l’esordio del De vita beata:
Tutti, o fratello Gallione, vogliono vivere felici, ma quando poi si tratta di riconoscere cos’è che rende felice la vita, ecco che ti vanno a tentoni; a tal punto è così facile nella vita raggiungere la felicità che uno quanto più affannosamente la cerca, tanto più se ne allontana, per poco che esca di strada; che se poi si va in senso opposto, allora più si corre veloci e più aumenta la distanza. Perciò dobbiamo prima chiederci che cosa desideriamo; poi considerare per quale strada possiamo pervenirvi nel tempo più breve, e renderci conto, durante il cammino, sempre che sia quello giusto, di quanto ogni giorno ne abbiamo compiuto e di quanto ci stiamo sempre più avvicinando a ciò verso cui il nostro naturale istinto ci spinge.

Non son parole scontate. Seneca sottolinea la tendenza innata alla felicità propria di ogni uomo. Eppure, non tutti si chiedono che cosa desiderino davvero e non sempre questa tendenza innata si traduce nella conseguente ricerca quotidiana della felicità. Il punto di partenza dell’indagine è desiderarla e chiedersi quale sia la strada migliore per raggiungerla. Ciascuno di noi deve, poi, sottoporre a verifica la strada che sta percorrendo nell’esperienza quotidiana per valutare se si sta avvicinando o allontanando dalla meta.

Fondamentale è scegliere una guida, un maestro, non «seguire solo lo strepito e il clamore discorde di chi ci chiama da tutte le parti», perché in questo caso il tempo sarà consumato in un «continuo andirivieni».  

Dobbiamo stabilire dove vogliamo andare e per quale strada. Ma stiamo attenti: «Le strade più frequentate e più conosciute sono quelle che traggono maggiormente in inganno».

Da nulla, quindi, bisogna guardarsi meglio che dal seguire, come fanno le pecore, il gregge che ci cammina davanti, dirigendoci non dove si deve andare, ma dove tutti vanno. E niente ci tira addosso i mali peggiori come l'andar dietro alle chiacchiere della gente, convinti che le cose accettate per generale consenso siano le migliori e che, dal momento che gli esempi che abbiamo sono molti, sia meglio vivere non secondo ragione, ma per imitazione.

Lungi dal seguire l’approvazione del volgo, l’uomo deve cercare ciò che può condurre «al possesso dell’eterna felicità». Di solito la folla loda l’eloquenza, insegue la ricchezza, esalta il potere e chi ha credito. L’uomo cerca beni appariscenti, che rifulgano fuori, ma che non sono solidi e duraturi.

Cosa deve seguire l’uomo per compiersi? I propri progetti, i propri pensieri? Può costruirsi valori personali, anche in contrasto con l’evidenza della realtà? Si può, in altre parole, giustificare il relativismo etico? Al riguardo Seneca è chiaro:
lntanto, d’accordo con tutti gli stoici, io seguo la natura; è saggezza, infatti, non allontanarsi da essa e conformarsi alla sua legge e al suo esempio. È dunque felice una vita che segue la propria natura, che tuttavia non può realizzarsi se prima di tutto l’animo non è sano, anzi nell'ininterrotto possesso della sua salute, e poi forte ed energico, infine assolutamente paziente, adattabile alle circostanze, sollecito ma senza angoscia del suo corpo e di ciò che gli concerne, attento a tutte quelle cose che ornano la vita, senza però ammirarne alcuna, disposto a usare i doni della natura, ma senza esserne schiavo. 

La riflessione di Seneca è particolarmente attuale in un mondo come quello contemporaneo in cui è associata la dimensione della felicità al possesso o all’edonismo. 

Nel cinema, nella pubblicità la felicità è quasi sempre abbinata ad uomini ricchi e fascinosi in compagnia di belle donne, come prerogativa esclusiva di pochi e dono inaccessibile ai più. L’equazione più diffusa e conosciuta nel mondo occidentale è, quindi, «carriera più soldi più belle donne uguale felicità».  

Oppure i volti felici sono associati alla dimensione dello sballo, della spensieratezza, di un carpe diem becero e dimentico di tutto.

La frenetica vita di oggi sembra la paradigmatica rappresentazione di una risposta che la società contemporanea ha dato alla questione della felicità, risposta pilotata dal potere che induce falsi bisogni e li pone come esigenze fondamentali dell’io. Siamo bombardati da messaggi che ci inducono a pensare in positivo per la moltitudine dei beni di consumo che l’uomo può ottenere, siamo immersi nella civiltà che ci gestisce il tempo libero ora per ora, come nei villaggi turistici dove il nostro divertimento è sentirci dire cosa fare e come occupare le nostre giornate. Riempire il vuoto, mettere a tacere l’horror vacui, che provoca un senso di vertigine, è la parola d’ordine attuale. I più, nella propria dimenticanza, non si avvedono neppure di non essere liberi in questo modo di agire, presuppongono di stare bene, semplicemente perché non sentono più la domanda. Paradossalmente una montagna di piaceri sommerge il vero desiderio.

L’espressione divertissement nel suo significato etimologico (dal latino divertere cioè «volgere qua e là, lontano dalla strada principale, dal solco tracciato») ben designa il tentativo, coscientemente o incoscientemente perpetrato, di strapparci dal nostro cuore originario, sede delle domande più autentiche sul significato e sul senso delle cose, attraverso distrazioni, palliativi, piaceri surrogati della felicità che hanno come conseguenza quella di alienarci, di allontanarci da noi stessi, di renderci estranei a noi stessi, di essere sempre fuori da noi così che «la nostra casa risulta disabitata» (B. Pascal).

Ne I pensieri Blaise Pascal scrive: «Nulla è tanto insopportabile per l’uomo quanto lo stare in riposo completo, senza passioni, senza preoccupazioni, senza svaghi, senza applicazione. Allora sente il suo nulla, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Immediatamente dal fondo della sua anima verranno fuori la noia, la tetraggine, la tristezza, l’affanno, il dispetto, la disperazione». L’uomo passa, così, da un piacere all’altro senza sosta, rimanendo deluso in continuazione, ma sopperendo a questo disinganno con l’immensa varietà dei piaceri. Spesso, non ha tempo di stancarsi dei piaceri, poiché vi si sofferma troppo poco e non ha lo spazio per riflettere sull’incapacità di essi a felicitarci.

In una lettera indirizzata a Lucilio Seneca ammonisce, invece, noi tutti: «Vindica te tibi» ovvero «Rivendica te stesso per te». Guardati, quindi, in fondo al cuore e chiediti che cosa davvero tu desideri. Chiediti se tu sia davvero felice.