Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
IL FILM

Seberg e la ricetta del razzismo

Hollywood non finisce di denunciare il razzismo americano (sia vero che presunto), la ricetta più sicura per vincere l’Oscar. L’ultima uscita sul tema è Seberg, pellicola che ripercorre la parabola sfortunata di Jean Seberg. L’attrice si infatuò delle Black Panthers che, diversamente da Martin Luther King, predicavano violenza. E, tempo dopo le sue disavventure con l'Fbi, morì suicida

Cultura 16_04_2020

Vinta la seconda guerra mondiale gli Usa soppiantarono l’impero britannico e decisero che il miglior modo di eternare il loro era di esportare l’American way of life. E ci riuscirono felicemente, basti pensare all’Alberto Sordi nell’Americano a Roma o a Renato Carosone di Tu vuo’ fa’ l’americano. Solo che, coi Seventies, furono le loro sinistre liberal a colonizzare l’American way of life: ricordiamoci che il Sessantotto partì dall’Università di Berkeley.

La loro arma principale (e micidiale) è Hollywood. Dai tempi di Il buio oltre la siepe non hanno mai smesso di denunciare il razzismo americano, tanto che, ormai, la ricetta più sicura per vincere l’Oscar è fare un film sul razzismo. E hanno talmente ossessionato l’opinione pubblica da riuscire a far eleggere Obama solo perché nero. L’altra «minoranza oppressa» sono le donne, ma con Hillary l’americano medio ha detto basta. E allora Hollywood è tornata sul razzismo, e giù Oscar: Django Unchained, 12 anni schiavo, Il diritto di opporsi

Anche questa ossessione è stata, com’è noto, esportata, tant’è che in piena emergenza Covid-19 la giunta torinese a trazione grillina ha pensato bene di mettere ai voti una mozione sul razzismo.

L’ultima uscita sul tema è Seberg, un film che ripercorre la parabola sfortunata di Jean Seberg, bionda attrice americana e di punta della New Wave francese, che i più anziani tra noi ricorderanno per il taglio di capelli alla maschietto. Lanciatasi nel 1958 con Buongiorno tristezza, proseguì con Fino all’ultimo respiro, Il ruggito del topo, eccetera. Fu anche una Santa Giovanna, la cui scena del rogo le causò ustioni vere. Dopo un precedente divorzio (di divorzi ne ebbe tre), nel 1968 era sposata col regista Romain Gary, da cui aveva avuto un figlio.

Si infatuò del movimento delle Black Panthers, sorta di ala sinistra radicale dei Black Muslims di Malcolm X. Avete presente la scena della premiazione olimpica di due atleti neri che, al momento dell’inno americano, alzano il pugno destro guantato? Bene, diversamente dalla non-violenza di Martin Luther King, le Pantere Nere la violenza la predicavano eccome, tanto da essere guardate a vista dall’Fbi. Curiosamente, per protestare contro i bianchi e la loro cultura, questi neri si erano fatti musulmani, non sapendo che a vendere gli schiavi africani ai bianchi erano gli arabi, la cui tratta cessò solo verso la fine del XX secolo.  Jean Seberg si fece fotografare in mezzo a Pantere Nere col caratteristico basco alla Che Guevara e i guanti neri: anche l’attrice fu immortalata mentre salutava col pugno alla comunista. E fece di più: oltre a finanziare generosamente le Pantere, intraprese una relazione sessuale con uno dei capi, Hakim Jalal (nome islamico di un nero americano con precedenti penali per droga e porno; era stato anche in manicomio), sposato e con figli. L’Fbi credette bene di farlo sapere alla moglie di Jalal e, naturalmente, scoppiò il finimondo. Ma la Seberg non demorse: la relazione dovette troncarla ma il suo coinvolgimento con la causa delle Pantere continuò.

Il film romanza parecchio la vicenda della Seberg (interpretata da Kristen Stewart, quella della saga di Twilight), ovviamente sbilanciandosi a tutto sfavore dell’Fbi di Edgar Hoover (che per i liberals è, insieme al senatore McCarthy, il male assoluto). Ma è pur vero che il Bureau cercò di screditare in tutti i modi quella testimonial che, va detto, faceva di tutto per offrire fianchi ai suoi detrattori. Infatti, la disinvolta attrice si ritrovò incinta di un non meglio precisato messicano, cosa che permise a chi la braccava di mettere in giro la voce che il padre fosse Jalal. L’America profonda e media (che è poi quella che va al cinema e mantiene di fatto Hollywood) questa volta disse basta.

Lei tentò una prima volta il suicidio, che le riuscì pienamente nel 1979 a Parigi, quando le sue disavventure con l’Fbi erano ormai un lontano ricordo.