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a cura di Andrea Zambrano

INCONTRI SINODALI

“Se telefonando...”. Fenomenologia dell'indigeno

Smettiamo di strumentalizzarli: girano sull'inquinante Frecciarossa, "scrollano" lo smartphone alienandosi dal mondo. Come tutti. Come noi. Gli indigeni "sinodali" non sanno neanche cos'è il mito del buon selvaggio. Perché come noi l'unica cosa che vogliono è una vita piena. E per questo non c'è bisogno di viri probati né Pachamame. 

Fuori schema 23_10_2019

Smettiamo di strumentalizzarli: girano sull'inquinante Frecciarossa, "scrollano" lo smartphone alienandosi dal mondo. Come tutti. Come noi. Gli indigeni "sinodali" non sanno neanche cos'è il mito del buon selvaggio. Perché come noi l'unica cosa che vogliono è una vita piena. E per questo non c'è bisogno di viri probati né Pachamame 

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La natura e il buon selvaggio... ma certo, come no? Sono settimane che dal Sinodo e dintorni ci ammorbano con la purezza indigenista delle popolazioni amazzoniche. Popoli che non sono contaminati con il progresso, popoli che vogliono vivere in pace con i loro idoli senza nome, indigeni che - loro sì! - hanno il contatto con il Creato dove tutto è connesso.

Popoli in sostanza che non hanno bisogno della civiltà perché una Teologia della liberazione ancora imputridita di ideologia li vuole inchiodare sbandierandoli al mondo civilizzato al loro stadio primordiale dove oltre a non ricevere i benefici del progresso vengono privati anche dell'annuncio cristiano completo delle due ali, quella della fede e quella della ragione, senza la quale non c'è il progresso intellettuale. 

Mitologie da buon selvaggio che ancor oggi nei briefing quotidiani si sentono ripetere ad ogni giornata conclusiva del Sinodo in corso. Poi ti imbatti in scene come queste e ti accorgi che forse qualcuno ti sta menando per il naso. 

Lunedì 21 ottobre, sul Frecciarossa Torino-Roma delle 17:18 sono seduti tre nativi amazzonici. Impossibile non riconoscerli: sono quelli del Sinodo. E che ci fanno qui? Forse tornano a Roma. Forse erano così esausti dai circoli minori che sono venuti a Milano a fare shopping con borsoni di carta riciclata. O forse se ne stavano belli belli in giro per lo Stivale quando sono stati richiamati alla base in Santa Maria in Traspontina: "Hanno rubato la Pachamama, tornate, dobbiamo fare una macumba ai rapitori!". 

La vena del cronista non si chiude mai e di istinto tiro fuori il telefono: clic. Mi colpisce una cosa: questi due signori (il terzo è di spalle in questa foto) se ne stanno belli belli con il loro copricato da Toro Seduto scintillante di piume colorate come un colibrì della foresta, totalmente incuranti degli sguardi della gente, intenti a scrollare il loro cellulare. Come italiani normali. Sono - immagino per la prima volta della loro vita - in Italia, stanno attraversando il Paese più bello del mondo a bordo di uno dei mezzi tecnologicamente più evoluti - e inquinanti - del mondo. E cosa fanno? Se ne stanno ricurvi sui loro smartphone a guardare il mondo virutale. 

Fanno quello che facciamo noi. E noi che ci immaginavamo che gli indigeni passassero tutto il giorno a lodare la madre terra e fare sacrifici e pescare con le fionde. C'è molta letteratura nel mito del buon selvaggio che in questi giorni si sta spacciando al Sinodo. A cominciare dal loro essere incontaminati. Forse sono loro che non vogliono assolutamente i vantaggi di una natura irrazionale dove dominano il kaos e la legge del più forte. Forse vogliono solo essere come noi, come testimonia ineccepibilmente uno di loro, recentemente intervistato qui

"Noi siamo e vogliamo vivere con i confort della civiltà, usare l’energia elettrica, l’automobile, l’autobus e abbiamo villaggi dove ci sono attività produttive. Rivendichiamo il diritto di avere accesso a questi strumenti della civilizzazione e di poter progredire".

Sante parole. E allora perché non ascoltarli davvero questi nostri fratelli? Perché convincerci che in realtà devono vivere come in realtà non vogliono vivere, privandoli romanticamente di quelle comodità inquinanti di cui gode ogni padre sinodale? Forse hanno solo bisogno di una sola cosa: di Gesù Cristo, che gli venga portato come è stato portato nei secoli anche ai loro avi: con la civilità, con l'amore e con la liturgia. Perché il loro cuore desidera una vita piena e bella. Ma per questo non servono viri probati, né diaconesse e nemmeno convegni sulla deforestazione dell'Amazzonia e programmi di tutela delle miniere. E neppure, già che ci siamo, di Pachamame, come i loro vescovi confermano.

Non è forse anche questa una forma di razzismo nascosto portato avanti dalle alte sfere sinodali? Fanno i naturalisti. Con le piume degli altri.