Se il matrimonio "timbra" solo la convivenza
Sempre più spesso il matrimonio non è il fondamento su cui edificare la famiglia. Prima si crea una convivenza con figli e poi, una volta raggiunta una certa sicurezza economica, sociale, psicologica, c’è il coronamento di questo status con il matrimonio.
Di recente è stata pubblicata una ricerca statunitense dal titolo "Knot Yet" (gioco di parole tra “non ancora” e “fiocco nuziale”): The Benefits and Costs of Delayed Marriage in America” (“Non ancora: i benefici e i costi del matrimonio tardivo”), studio realizzato dalla Campagna Nazionale per la Prevenzione delle Gravidanze Adolescenziali e Indesiderate, dal National Marriage Project dell’Università della Virginia e dal Relate Institute. Tra i moltissimi dati ne evidenziamo un paio.
Il primo: ci si sposa sempre più tardi. Nel 1970 le donne tra i 20 e i 24 anni nel 60% dei casi erano già sposate (nel 90% dei casi tra i 25 e i 29 anni). Nel 2010 solo il 20% (il 50% tra i 25 e i 29 anni).
Stessa musica per gli uomini: nel 1970 il 50% dei maschi tra i 20 e i 24 anni erano sposati (tra i 25 e i 29 anni erano l’80%). Nel 2010 solo il 10% dei giovani tra i 20 e i 24 anni è salito all’altare (il 40% tra i 25 e i 29 anni).
Un secondo dato: sempre più bebè nascono fuori dal matrimonio. O meglio: prima di sposarsi. Infatti il 48% delle prime nascite in Usa avviene due anni prima di sposarsi. In merito a questo dato il rapporto così commenta: “la nazione è a un punto di svolta, sul punto di muoversi verso una nuova realtà demografica, dove la maggior parte delle prime nascite negli Stati Uniti precede il matrimonio”. E poi aggiunge riguardo al destino di questi figli che nascono senza le garanzie offerte invece ai figli di genitori sposati: “Ciò di cui spesso non ci rendiamo conto è che i figli nati fuori dal matrimonio sono significativamente più esposti a una folta schiera di custodi e il fallimento sociale, emotivo ed economico, si associa all’instabilità familiare e alla genitorialità dei single”.
E dato che la convivenza per sua natura è un rapporto precario che nasce, vive e muore in breve tempo – metà di loro finiscono entro un anno (Demography, 2006) – gli ex conviventi prima o poi troveranno un secondo o terzo compagno per ritentare di vincere la partita con Cupido e magari per mettere al mondo con loro altri figli. E così i bambini nati in un rapporto di convivenza “devono adattarsi a una marea di nuove relazioni con patrigni, matrigne, fratellastri, sorellastre, spesso sacrificando un legame stretto con i propri genitori naturali”.
Se mettiamo insieme questi due dati, la volontà di procrastinare sempre più in là nel tempo il momento in cui si convola a nozze e l’aumento del numero di nascite prima di sposarsi (trend presenti anche da noi in Italia), il matrimonio dal punto di vista sociale sta assumendo sempre più la veste di un patto confirmatorio di una realtà già esistente, più che di una promessa di costruire un futuro progetto di vita a due.
Così gli autori della ricerca appuntano: “Il matrimonio, da pietra angolare della vita adulta, quale era, ne è diventato la chiave di volta”.
In altre parole sempre più spesso il matrimonio non è il fondamento su cui edificare la famiglia, il punto di partenza per costruire programma esistenziale a due. La dinamica si sta ribaltando: prima si crea una convivenza con figli e poi – una volta raggiunta una certa sicurezza economica, sociale, psicologica – c’è il coronamento di questo status con il matrimonio, quasi fosse una fotografia di uno scenario familiare che con il tempo si è pian piano consolidato, la certificazione burocratica che fa transitare i conviventi da un “matrimonio di fatto” in uno civile o religioso.
L’espressione “matrimonio di fatto” non è iperbolica. Infatti le convivenze stanno sempre più assomigliando ai matrimoni e questi alle convivenze. Da una parte stiamo svuotando di significato il matrimonio depauperandolo delle sue caratteristiche peculiari: l’indissolubilità, l’unita/esclusività e i figli. E dall’altra i conviventi stanno indebitamente tentando di impossessarsi di queste caratteristiche, con il solo risultato di scimmiottare l’istituto matrimoniale.
In merito all’indissolubilità, i matrimoni durano sempre di meno a causa dei divorzi, involvendosi quindi in un rapporto molto precario. E la precarietà è elemento distintivo della convivenza. Di converso e per paradosso, le convivenze mostrano la tendenza a durare sempre di più, mimando così la natura del vincolo matrimoniale che di suo è chiamato al “per sempre”.
In relazione all’esclusività del vincolo, defunto il matrimonio l’ex coniuge tornato single non di rado passa da una relazione a un’altra, così come accade nelle convivenze quando anch’esse terminano. E infine riguardo ai figli, il numero di questi decresce tra le coppie sposate – e l’assenza di figli era tratto caratteristico delle convivenze –, ma aumenta nelle coppie conviventi proprio come dovrebbe avvenire nei matrimoni.
C’è sostanzialmente uno scambio dei ruoli e questo avviene perché, erroneamente, si crede che il nocciolo duro di un rapporto a due siano i sentimenti, le emozioni. Se è questa la cifra caratteristica di una relazione, che differenza può esserci tra una coppia sposata e una convivente? Nessuna si dirà (in realtà a torto perché i sentimenti di una coppia sposata sono ben differenti di quelli delle coppie di fatto). E dunque matrimonio e convivenza “per me pari sono”.
In tal modo il matrimonio verrà percepito solo come un mero involucro formale che riveste il vero cuore pulsante della relazione, cioè gli affetti. E una volta che il matrimonio sarà finito – perché gli affetti saranno estinti - lo si vivrà come fine di una situazione burocratica o come fine di un fidanzamento un po’particolare.