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IL CASO NASSIRYA

Se i generali devono risarcire i famigliari dei caduti

Il generale Stano, che guidava il contingente morto a Nassirya è stato condannato in sede civile per aver esposto i militari a un rischio eccessivo. Giudicato come se avesse compiuto un abuso edilizio e non come soldato in guerra. E' il paradigma di un’Italia che manda i soldati in guerra e poi ne sacrifica i comandanti per salvare la faccia alla politica. 

Cronaca 17_02_2017

Negli ultimi giorni almeno due elementi hanno manifestato chiaramente l’impossibilità dell’Italia di essere un “Paese normale”. Prima la notizia rivelata dal britannico Guardian che anche la Farnesina è stata al centro di attacchi hacker (come tutti gli apparati governativi del mondo) Strano Paese l’Italia) è stata accompagnata dallo scoop del Mattino che ha rivelato come le reti informatiche del nostro Ministero degli Esteri fossero “protette” da società russe e poi statunitensi con tanto di regolare appalto.

Di fatto è come consegnare alla volpe le chiavi del pollaio e poi lamentarsi che le galline sono scomparse. L’8 febbraio invece la Corte d’Appello di Roma ha condannato il generale dell’Esercito Bruno Stano a risarcire i famigliari delle 19 vittime dell’attentato di al-Qaeda del 12 novembre 2003 all’ingresso della base dei carabinieri “Maestrale” a Nassirya.

Assolto dopo un lungo iter processuale penale, il generale Stano, che all’epoca guidava la Brigata meccanizzata Sassari nella città irachena, è stato condannato in sede civile per aver esposto i militari a un rischio eccessivo. La sentenza, sottolinea che Stano ha “ignorato gli allarmi dell’intelligence” circa il rischio di attentati e avrebbe “sottovalutato il pericolo di una base troppo esposta”. Secondo il generale Tricarico, già capo di stato maggiore dell’Aeronautica e oggi presidente della Fondazione ICSA, “nulla è stato fatto per proteggere gli operatori dello Stato impegnati in un quadro emergenziale che si rinnova in continuazione giorno dopo giorno sia all’interno dei confini nazionali sia nelle missioni all’estero, un quadro in cui ogni fattispecie di comportamento viene giudicata con le norme della pacifica convivenza e non con quelle di scenari che nessuno ormai esita a definire come guerra.

Insomma, Stano è stato giudicato come se avesse compiuto un abuso edilizio ai Parioli e non come soldato in guerra; le norme vanno profondamente riviste, va individuato un quadro giuridico nuovo con cui affrontare il terrorismo ed affini in casa e fuori, ed è bieco che lo Stato abbandoni i suoi servitori migliori nelle mani di una giustizia forse formalmente giusta ma nei fatti ottusa, e nelle conseguenze profondamente ingiusta”. Dopo i primi attentati qaedisti a Baghdad gli allarmi dell’intelligence s moltiplicarono in tutto l’Iraq e il contingente italiano dell’operazione Antica Babilonia ritirò infatti dalla città di Nassirya due avamposti presidiati dall’Esercito concentrando le forze su due basi (Tallil e White Horse”, situate a 20 e 5 chilometri dalla città) lasciando a Nassirya le due basi dei carabinieri Libeccio e Maestrale.

Il comando italiano, solo dal 6 ottobre affidato al generale Stano, rinforzò le difese passive delle basi ma i genieri cominciarono dai perimetri delle due esterne alla città: facile dire col senno di poi che sarebbe stato più utile cominciare da quelle dei carabinieri rimaste in città magari chiudendo al traffico il ponte vicino alla base Maestrale. Iniziativa che avrebbe creato qualche problema ai cittadini che però apprezzavano la presenza dei carabinieri che addestravano e accompagnavano in azione la ricostituita polizia. Si poteva forse fare di più per proteggere la base ma è assurdo attribuire al comandante del contingente questa responsabilità in termini di risarcimenti pecuniari ai famigliari dei caduti.

Se colpe e negligenze vi furono spettava a una Corte Marziale giudicare Stano o altri comandanti colpevoli ma allo Stato indennizzare i caduti cosa peraltro giù ampiamente avvenuta. Le guerre sono piene di errori di valutazione: immaginiamo se Napoleone avesse dovuto risarcire i caduti della campagna di Russia o Rommel i famigliari dei soldati morti a El Alamein. Dopo il “Caso Stano” quale generale italiano guiderà i suoi uomini in operazioni se rischierà di dover rispondere di tasca sua per feriti e caduti? Ci sarà un tenente pronto a condurre il suo plotone contro talebani e miliziani?

Nell’estate 2001 ci furono negli Usa reiterati allarmi circa il rischio di attentati terroristici con l’impiego di aeroplani ma nessun tribunale americano ha mai emesso condanne a singoli funzionari o comandanti statunitensi per risarcire le 3mila vittime dell’11 settembre. Le truppe britanniche in Iraq combatterono gli stessi nemici degli italiani ma di fronte a caduti, attentati e battaglie il premier Tony Blair dichiarò pubblicamente di attribuire a lui la responsabilità per ogni azione compiuta dai militari di Sua Maestà.

Al di là della vicenda paradossale, il “Caso Stano” costituisce il paradigma di un’Italia che manda i soldati in guerra chiamandola “missione di pace” o “umanitaria”, peraltro senza dotarli dei mezzi necessari a combattere con efficacia il nemico, e poi ne sacrifica i comandanti per salvare la faccia alla politica. Se le truppe italiane avessero avuto più unità del Genio avrebbero potenziato in tempi rapidi i perimetri di tutte le basi, se avessero avuto i carri armati Ariete (inviati solo un anno dopo) avrebbero potuto metterli a difesa degli accessi a ponti e basi bloccando ogni minaccia.

Ma il governo Berlusconi le considerò armi troppo offensive per una “missione di pace” e “umanitaria”. Un errore che oggi l’Italia vuol far pagare (di tasca sua) a un generale.