Se anche per gli Usa il capro espiatorio è cristiano
Nakoula Basseley Nakoula è l’unica persona che sta pagando, con il carcere, per l’uccisione dell’ambasciatore statunitense in Libia, Christopher Stevens, avvenuta a Bengasi l’11 settembre 2012, per mano dei terroristi islamici. La sua vera colpa è essere copto?
Prendi un cristiano, trattalo male. Accusalo di blasfemia, sbattilo in galera. Se non hai prove, non ti preoccupare. Lui è un cristiano, nessuno lo vorrà vendicare.
Questo modo di intendere la “giustizia” è abbastanza comune in Pakistan, dove è in vigore la legge sulla blasfemia, basata sul legittimo sospetto. È comune anche in Egitto, dove non esistono leggi simili, ma i cristiani copti fanno da capro espiatorio per qualsiasi problema, anche per l’epidemia di influenza suina (il provvedimento preso da Moubarak, a suo tempo, fu di abbattere i maiali, con gran danno per gli allevatori cristiani).
Difficile pensare che questa norma, scritta o non scritta che sia, venga applicata dagli Stati Uniti. Proprio dalla nazione che vanta la sua libertà di religione e di parola quali fondamenta della sua Costituzione. Eppure un cristiano copto egiziano, residente negli Usa, sta pagando per le colpe di altri.
Nakoula Basseley Nakoula, questo il suo nome, è l’unica persona che sta pagando, con il carcere, per l’uccisione dell’ambasciatore statunitense in Libia, Christopher Stevens, avvenuta a Bengasi l’11 settembre 2012, per mano di terroristi islamici.
Nakoula Basseley Nakoula aveva realizzato un video amatoriale, intitolato “L’innocenza dell’Islam” in cui sbeffeggiava Maometto. Si trattava di una piccolissima produzione, divulgata solo all’interno della comunità copta d’America. Non era uscito al cinema, non era stato diffuso da alcuna televisione. È stato diffuso, solo come trailer, su YouTube.
È stato scoperto da radicali islamici, diventando l’ennesimo oggetto di odio contro l’Occidente, solo dopo due mesi che era già in Internet. L’11 settembre 2012, al Cairo i fondamentalisti islamici hanno organizzato una violenta manifestazione contro l’ambasciata degli Stati Uniti.
Ma a Bengasi, in Libia, è successo qualcosa di completamente diverso. L’11 settembre 2012 è stato ucciso l’ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi, Libia. Non da manifestanti inferociti, ma da un attacco terroristico accuratamente pianificato.
Nelle due settimane successive, però, la versione ufficiale del Dipartimento di Stato e dello stesso presidente Barack Obama, era quella della ribellione spontanea. Causata proprio dall’“Innocenza dell’Islam”. Il governo libico ha puntato subito il dito su Al Qaeda, ma Obama non gli ha dato ascolto. L’ambasciatrice all’Onu, Susan Rice, ha dichiarato pubblicamente che quello di Bengasi era un evento spontaneo, originato dall’“Innocenza dell’Islam”, ritenuto blasfemo.
La Casa Bianca ha ufficialmente condannato il video, rendendolo noto ai musulmani di tutto il mondo, anche a centinaia di milioni di persone che, altrimenti, non ne avrebbero mai sentito parlare.
L’amministrazione Obama ha trasmesso annunci pubblici in Pakistan, in cui il presidente stesso prendeva le distanze, a nome degli Stati Uniti, dal video del “blasfemo” copto. Hillary Clinton, allora segretaria di Stato, ha promesso a Charles Woods, padre di una delle vittime dell’attacco di Bengasi, che “…arresteremo e assicureremo alla giustizia la persona che ha girato quel film”. Nakoula Basseley Nakoula è stato arrestato il giorno dopo la rielezione di Barack Obama, condannato a un anno di carcere e quattro di arresti domiciliari.
Non esistendo il reato di blasfemia, il magistrato che lo ha giudicato ha emesso la sua sentenza per violazione della vigilanza, a cui era sottoposto per un reato commesso nel 2010, una frode con carta di credito. Un reato che normalmente viene punito con una multa, sicuramente non con 5 anni di arresti (di cui 1 in carcere).
In galera o quando tornerà in libertà, il regista “blasfemo” rischia la vita, perché più di un imam radicale ha emesso una fatwa che lo condanna a morte. Eppure ormai è assolutamente certa (e lo era già l’11 settembre 2012) l’estraneità di Nakoula negli eventi di Bengasi. Secondo la testimonianza resa da funzionari che erano in Libia, il Dipartimento di Stato era perfettamente al corrente, sin da subito, che quello al consolato americano fosse un attacco terroristico precedentemente pianificato e non una “manifestazione”.
Casa Bianca e Dipartimento di Stato erano consapevoli che il video di Nakoula non fosse la causa della morte di quattro americani, fra cui l’ambasciatore Stevens.
“Il video su YouTube è un evento non rilevante in Libia”, dichiara Gregory Hicks uno dei testimoni. Hicks afferma, senza alcun dubbio, che nessun americano presente in Libia stesse pensando a quel filmato quale causa dell’attacco.
La Tv Abc News documenta quanto il rapporto inviato dalla Cia al Dipartimento di Stato sia stato “corretto” per eliminare ogni nesso con un attacco di Al Qaeda. Sono stati rimossi tutti i passaggi sui precedenti allarmi, i riferimenti a gruppi terroristici chiamati per nome, quali Al Qaeda e Ansar al Sharia. In uno scambio di email fra il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca, risulta che Victoria Nuland (portavoce del primo) abbia anche esplicitamente scritto di rimuovere quella parte del rapporto, perché «Potrebbe essere oggetto di un abuso da parte di membri (del Congresso, ndr) per colpire il Dipartimento di Stato, accusandolo di non aver prestato attenzione agli allarmi. Perché dovremmo alimentare anche noi queste voci?». La Nuland avrebbe anche espressamente chiesto di rimuovere i riferimenti a precisi gruppi terroristi, perché «Non vogliamo pregiudicare l’investigazione del Congresso».
In questo modo, il Dipartimento di Stato si è liberato della sua colpa principale: non aver prevenuto un attacco terroristico, aver mandato un ambasciatore in un’area ad alto rischio senza garantirgli la necessaria sicurezza. Ha individuato la causa in un evento “spontaneo”, dunque imprevedibile, causato da un video che ha offeso la “sensibilità religiosa” locale. Di fatto: ha attribuito tutte le colpe al capro espiatorio copto.