Scusi suor Bonetti, cosa ha capito del Kenya?
Suor Eugenia Bonetti, per 24 anni missionaria in Kenya, all'agenzia Misna dichiara che il ruolo della donna è molto più valorizzato nella cultura africana che non da noi. Non si è accorta che la donna, in Kenya, è priva di diritti?
Ci si aspetta che sacerdoti e suore missionari quando, di ritorno in Italia, parlano delle loro attività, ci invitino a ringraziare con tutto il cuore la Provvidenza per averci fatti nascere in un paese formatosi nella tradizione cristiana occidentale: per le buone condizioni materiali di vita di cui godiamo mentre altrove si patiscono stenti, ma prima ancora per le leggi che tutelano la nostra integrità fisica e morale, le nostre libertà, le pari opportunità, contro ogni discriminazione, leggi che derivano dal valore supremo e dal rispetto attribuiti a ogni vita umana e dal riconoscimento di diritti inerenti alla persona, quindi universali e inalienabili.
E poi dovrebbero insistere sull’urgenza di diffondere i valori cardine della civiltà cristiana occidentale e ringraziare tutti coloro che vi contribuiscono, rendendo possibile l’attività missionaria con offerte e doni, perché, dove questi valori mancano, le persone subiscono violenze e discriminazioni, fin dalla nascita, tanto più gravi quanto più basso è il loro status sociale: resi indifesi e indifendibili dal fatto che si tratta di violenze e discriminazioni istituzionalizzate, quindi consentite e anzi prescritte.
In Africa, ad esempio – i missionari dovrebbero spiegare – resta tuttora forte l’influenza delle istituzioni che per millenni hanno governato le società tribali, autoritarie, patriarcali e gerontocratiche: istituzioni volte al miglior uso, affidato ai maschi capifamiglia, della forza lavoro e riproduttiva disponibile, realizzato controllando i giovani maschi e le donne, disponendone in funzione delle economie di sussistenza praticate. Alle donne, aiutate dai bambini, è assegnato gran parte del lavoro manuale (da cui i capifamiglia sono per tradizione esentati appena i figli sono in grado di sostituirli), ma non ne ricavano riconoscimenti di status bensì condizioni di permanente asservimento, tanto più necessario per amministrarne le facoltà riproduttive in modo che diano figli solo alle famiglie alle quali appartengono. Le più diffuse istituzioni che vi provvedono sono il matrimonio imposto (combinato dai genitori, anche in età infantile perché sia più sicuro che la sposa non sia stata violentata), il prezzo della sposa, le mutilazioni genitali femminili, il levirato, il sororato, il ripudio delle donne sterili, le punizioni fisiche con cui un marito ha il dovere di assicurare alla propria famiglia mogli docili, obbedienti e servizievoli.
Questo e molto altro dovrebbero dire i missionari per far capire la nostra fortuna e l’importanza della loro missione, ma raramente lo fanno. Invece, di diritti umani e dignità della persona violati parlano volentieri in relazione alle multinazionali “ladre” di ricchezze, al dovere di porre rimedio alla fame perché il benessere dell’Occidente non sarebbe, secondo molti di loro, frutto dell’operosità e dell’ingegno di generazioni, ma di rapina e sfruttamento dei poveri. Portano anzi le società tradizionali africane a mirabile esempio di rispetto e difesa di valori umani, pur nelle ristrettezze: valori che l’Occidente ricco invece disprezza e sacrifica al profitto…
«In Africa – diceva suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, intervistata dall’agenzia di stampa Misna in occasione della giornata mondiale contro la violenza alle donne, lo scorso 25 novembre – le donne sono il perno della vita della società e della Chiesa, il palo centrale della capanna, quello che la tiene in piedi: un ruolo che i paesi “sviluppati” devono capire e imparare a rispettare… dobbiamo renderci conto che non tutto è sempre e solo compravendita». Diceva anche che della tratta di esseri umani sono responsabili i paesi “cosiddetti sviluppati” e che «la maggior parte delle violenze ai danni delle donne colpisce persone povere e vulnerabili portate nei paesi ricchi per essere messe sul mercato, per lo più a scopo di sfruttamento sessuale».
24 anni trascorsi in Kenya, missionaria tra la gente, e credere che le donne subiscano più violenze in Occidente che in Africa; non distinguere tra violenze istituzionalizzate e comportamenti violenti puniti dalla legge e universalmente condannati; non sapere che secondo il diritto consuetudinario la donna africana “palo della capanna” e perno della vita tuttora non possiede e non eredita nulla e può dirsi fortunata se qualcuno è disposto a pagare per lei il prezzo della sposa: che è il valore attribuito a una donna, contrattato e stabilito dai suoi genitori e da chi la vuole per moglie; calcolato in un ammontare di denaro e beni che, una volta pagato interamente, garantisce al marito e alla sua famiglia la piena e perenne proprietà della donna acquistata e dei figli da lei generati da quel momento.
Qualche tempo fa proprio in Kenya, in una delle provincie più sviluppate e modernizzate del paese, un uomo di 60 anni ha chiesto e ha ottenuto in moglie una bambina che ancora non aveva compiuto 11 anni. A trattative concluse, il padre della piccola ha ottenuto in cambio 17 mucche, un secchio di farina di frumento, cinque litri di olio commestibile, due paia di pantaloni, un paio di scarpe usate e un cellulare senza batteria.