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ZUBIN METHA AL MI-TO

Schoenberg e Stravinskji, profeti degli orrori del '900

I Cinque Pezzi per Orchesta di Arnold Schoenberg e La Sagra della Primavera di Igor Stravinskji eseguiti, a 100 anni dalla prima, da Zubin Metha, a Milano, nella rassegna musicale Mi-To. Un secolo fa furono uno scandalo: troppi oscuri presagi.

Cultura 23_09_2013
Stravinskji ritratto da Picasso

La rassegna musicale Mi-To ha proposto venerdì scorso al Teatro degli Arcimboldi di Milano musiche di Arnold Schoenberg ed Igor Stravinskij. Sul podio c’era una celebrità: Zubin Metha che ha diretto, con la consueta maestria, estro e precisione, la sua Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. Il concerto si è aperto con Schoenberg: Cinque pezzi per orchestra op. 16 del 1909 e la Kammersymphonie op. 9 per 15 strumenti solisti composto nel 1906. La celebre Sagra della primavera è invece stato l’omaggio tributato al maestro russo.

Per quale motivo si sono scelti questi titoli? Perché i Cinque pezzi di Schoenberg e la Sacre di Stravinskji festeggiano 100 anni dalla loro prima esecuzione (in realtà i Cinque pezzi furono eseguiti nel 1912). Una prima esecuzione che in entrambi i casi fu contrassegnata da un fiasco enorme (compresa la replica viennese nel 1913 dei Cinque pezzi). Nel caso della Sacre addirittura i fischi riuscirono a coprire la musica – che per la maggior parte del tempo è suonata ad un volume molto alto – alcuni vennero alle mani e gli arredi del Teatro degli Champs Elisées di Parigi furono danneggiati. Il giorno dopo la stampa parlò di “Concerto dei ceffoni” e “Le massacre du printemps” per parodiare il titolo dell’opera che in francese si intitola Le Sacre du printemps.

Perché il pubblico di allora si indignò così tanto ed invece oggi, a cento anni di distanza, queste musiche sono considerate dei capolavori? I motivi sono molteplici. Innanzitutto per la novità del linguaggio usato. Schoenberg in una lettera del 1909 – e dunque nel periodo di scrittura dei Cinque pezzi – indirizzata al grande pianista e compositore Ferruccio Busoni così si espresse in merito ai suoi obiettivi compositivi: «Miro a una liberazione completa da tutte le forme, da tutti i simboli della relazione e della logica. Quindi: via dall'elaborazione tematica. Via dall'armonia vista come forza unificante o elemento di costruzione di un'architettura. L'armonia è espressione e null'altro. Poi: via dal pathos! Via dalle eterne musiche che pesano quintali; dalla costruzione di grandi torri, di blocchi massicci ed altre cose gigantesche. La mia musica deve essere breve». Nello stesso anno in un’altra lettera inviata al compositore Richard Strauss così scrisse a proposito sempre dei suoi Cinque pezzi: «Si tratta solo di questo – assolutamente nulla di sinfonico, anzi proprio il contrario, niente architettura, niente costruzione. Soltanto un interrotto e variopinto cambiamento di colori ritmi e umori». Schoenberg in quegli anni si sta sganciando dai riferimenti tonali – una modalità armonica compositiva presente in tutta la musica che noi ascoltiamo: una musica “orecchiabile” si potrebbe dire – ma non è ancora approdato all’atonalità pura della dodecafonia. Dunque potremmo chiosare affermando che gli ascoltatori di allora furono spiazzati dalla mancanza di riferimenti musicali usuali. Lo stesso Gustav Mahler, ammiratissimo da Schoenberg, dichiarò che non riusciva ad affrontate la partitura (ed anche Zubin Metha recentemente ha ammesso che fino a poco tempo fa questi pezzi non erano in cima alle sue preferenze) e più in generale che non capiva la musica del compositore austriaco. Però concluse che bisognava dar sempre fiducia ai giovani e quindi fu sempre molto disponibile verso Schoenberg.

Ancor più dinamitardo fu per le orecchie dei contemporanei l’ascolto della Sagra. Questa composizione – le cui musiche accompagnarono le coreografie di un balletto di Vaclav Nizinskij – reca il sottotitolo: “Quadri dalla Russia pagana in due parti”. Così Stravinskji racconta nelle sue Chroniques (una delle sue biografie) l’intuizione iniziale da cui germinò l’intero pezzo: «Un giorno, in modo assolutamente inatteso giacché la mia mente era occupata da cose affatto diverse, intravidi nell'immaginazione lo spettacolo di un grande rito sacro pagano: i vecchi saggi, seduti in cerchio, osservano la danza di morte di una vergine che essi stanno sacrificando per propiziarsi il Dio della primavera». Gli elementi compositivi che risultarono più indigesti al pubblico forse furono i seguenti: i ritmi decisamente inusuali, spesso tribali ed ossessivi; l’uso degli strumenti non nel loro registro naturale (celebre l’inizio dove il fagotto suona un Do nel registro acuto), l’impiego degli armonici (suoni particolari molto eterei, quasi spettrali). Più in generale ciò che diede fastidio fu un impianto non fedele alla tonalità, la mancanza di una simmetria fraseologica e quindi riconoscibile, «la musica brutale e cubista, la coreografia erotica, il carattere anti-narrativo del soggetto» come ha appuntato il critico musicale Oreste Bossini. Oltre a questo si aggiunse alla musica una coreografia molto spregiudicata per i tempi: ad esempio i ballerini non stavano sulle punte (che è simbolo di trascendenza, di incorporeità del ballerino, una danza solo spirituale e dunque leggera) bensì la pianta del piede toccava completamente per terra, proprio per rimandare al senso materico della musica, ad un’immanenza tutta terrestre (la prima parte della Sagra si intitola infatti “L’adorazione della terra”), le movenze erano selvagge e quasi sgraziate. Si narra che lo stesso Stravinskji, volendo superare il concetto intellettuale del suono proprio del tardo romanticismo e desiderando descrivere uno scenario primitivo attraverso i suoni, richiamò una volta i suoi orchestrali chiedendo loro di non produrre un suono bensì un rumore. Insomma per le orecchie e gli occhi del tempo c’erano sufficienti motivi per gridare allo scandalo.

Ma forse lo scandalo maggiore non veniva tanto dal linguaggio usato, bensì da ciò che veicolava questo linguaggio, cioè il contenuto espressivo della musica. In merito ai Cinque pezzi di Schoenberg un critico musicale, seppur esperto di musica moderna, così commentò su un giornale: «Che visioni spaventose suggeriscono questi suoni! Che incubi evocano! E niente, ahimè niente, vi è di gioia e di luce, di quel che fa la vita degna di essere vissuta! Poveri i nostri posteri, se questo cupo e deprimente Schoenberg dovesse apparir loro come l'essenza del sentire del nostro tempo!». Un giorno Stravinskji e Debussy si trovarono insieme in un’abitazione privata per suonare a quattro mani la riduzione pianistica della Sagra. Ecco il commento del padrone di casa che li aveva ospitati: «Eravamo muti, sgomenti come dopo un uragano sopraggiunto da epoche remote a sconvolgere alle radici la nostra vita». Insomma oltre al modo di fare musica, quello che risultava insopportabile era ciò che diceva questa musica.

Ma quale giudizio estetico dare di queste composizioni al di là dell’enfasi encomiastica che ormai avvolge queste partiture? Difficile negare loro la patente di capolavori, in particolare per la Sagra, per più motivi. Innanzitutto i capolavori per essere tali si devono innestare, seppur innovandola, nella tradizione artistica precedente. I lavori di questi due geni del Novecento che qui commentiamo sono sì musiche di rottura, rivoluzionarie, ma in un certo qual modo sono legati ancora alla tradizione per i rimandi tonali, più o meno accentuati, presenti nelle partiture, per la costruzione della Kammersymphonie intorno alla forma sonata e a quella sinfonica, per la presenza della tecnica del contrappunto in più passaggi. Ed infatti Stravinskji rispondendo alle critiche su questo puntò un giorno così sbottò: «S’è fatto di me un rivoluzionario mio malgrado».

In secondo luogo perché una partitura possa essere intellegibile dall’ascoltatore deve avere, tra gli altri elementi, almeno due caratteristiche. In primo luogo deve possedere una forma, cioè un’unità razionale, una sua ratio potremmo dire. La forma di queste composizioni ovviamente non è quella classica perché libera da agganci tematici, dalle ripetizioni, dall’armonia classica. Però l’unità formale si coagula intorno ad altri espedienti compositivi: ad esempio la melodia invece di insistere sulle altezze gioca sui timbri; alcuni intervalli particolari tra le note spesso costituiscono la legge da osservare nello sviluppo della composizione; l’esistenza del contrappunto; il ritmo nella Sagra.

Inoltre affinchè il linguaggio musicale possa transitare dal mittente (il compositore) al destinatario (il fruitore) intatto, cioè conservando in sé quei significati voluti dall’artista, è indispensabile che il pezzo sia retorico. La retorica è quel particolare insieme di segni che hanno lo stesso valore sia per il mittente che per il destinatario. Facciamo un esempio: in qualsiasi parte del mondo se una persona è entusiasta di qualcosa – la squadra del cuore ha appena segnato una rete – la vedrete saltare, o abbracciare il vicino oppure solamente sorridere con un sorriso a 32 denti. Il suo corpo quindi comunica gioia con un linguaggio universale comprensibile da tutti. Voi fate ascoltare il ritmo martellante della prima parte della Sagra anche ad un indigeno dell’Amazzonia e di certo non vi dirà che gli ispira quiete e pace dell’anima. Questa è la retorica: strumenti semantici che permettono di veicolare dovunque un particolare messaggio.

E dunque potremmo concludere che cento anni fa quello che spaventò fu il messaggio comunicato, pieno di oscuri presagi, quasi violento per il suo esasperato realismo. Schoenberg e Stravinskji non fecero altro che annusare, in anticipo alla sensibilità dei loro contemporanei, la decadenza del loro mondo occidentale e restituire in musica, in modo brutale e crudo, queste loro “percezioni sensoriali”.