Scapigliatura, il materialismo positivista non basta
La Scapigliatura si presenta come movimento di avanguardia in opposizione al materialismo e al positivismo dilaganti in quegli anni. Cresciuti e imbevuti di quella cultura, erano ribelli nei confronti della tradizione, della società, del cristianesimo. Nei loro versi il disagio dell’uomo e l’insoddisfazione di fronte alla presunzione di eliminare la dimensione spirituale ed il Mistero dall’esistenza.
Quando nel 1857 si tiene il processo contro Les fleur du mal di Baudelaire, dall’Italia giungono nella capitale francese alcuni giovani intellettuali, affascinati dallo scrittore d’Oltralpe.
Il poeta maledetto diviene un punto di riferimento per la nascita del movimento letterario italiano più europeo dell’epoca, più aperto alla trasgressione e alla ribellione: la Scapigliatura. L’atto di nascita è rappresentato dal romanzo La Scapigliatura e il 6 febbraio di Cletto Arrighi, pubblicato solo pochi anni dopo il processo nel 1861 dall’editore Sonzogno. Così viene dichiarata la nascita di una nuova classe sociale di individui «tra i venti e i trentacinque anni; pieni di ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo; indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti, travagliati, turbolenti – i quali – e per certe contraddizioni terribili tra la loro condizione e il loro stato, vale a dire tra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere […] – meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile».
La Scapigliatura si presenta come movimento di avanguardia, «vero pandimonio del secolo, personificazione della storditaggine e della follia, serbatojo del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti», che si sviluppa nel Nord Italia, a partire da Milano divenuta ormai la capitale economica ed editoriale, centro della borghesia e ben presto del giornalismo (“Il corriere della Sera” vi nascerà nel 1876).
In opposizione al materialismo e al positivismo dilaganti in quegli anni, pur se cresciuti e imbevuti di quella cultura, ribelli nei confronti della tradizione, della società, del cristianesimo, gli scapigliati si scagliano contro Manzoni, ormai venerato come padre della lingua italiana per I promessi sposi e idolo ancora vivente (morirà ottantottenne nel 1873). Al vetusto letterato oppongono tre altri scrittori da imitare e da prendere ad esempio: oltre al già citato Baudelaire, Giuseppe Rovani, autore del romanzo Cent’anni ambientato a Milano tra il 1750 e il 1850, e l’autore di racconti dell’orrore Edgar Allan Poe. Si sentono come i bohémiens francesi, sedotti dall’arte, dalla bellezza e dall’amore, animati da grandi ideali, pieni della brama di realizzare grandi sogni, ma schiacciati nella profondità dell’anima dalla percezione che le loro ali sono troppo fragili e deboli per permettere loro di volare.
Proprio questo scrive Emilio Praga nel 1864 nella poesia «Preludio», vero e proprio emblema dei valori e dei disagi scapigliati. L’autore e gli altri poeti del gruppo si sentono «figli dei padri ammalati» che svolazzano «muti, attoniti, affamati,/ sull’agonia di un nume». Chi sta morendo è la Chiesa, Cristo stesso, la religione cristiana («Degli antecristi è l’ora!/ Cristo è rimorto!»), ma lo stesso Manzoni che rappresenta la fede cristiana («Casto poeta che l’Italia adora,/ vegliardo in sante visioni assorto,/ tu puoi morir!»). Ritornano qui immagini e temi cari al maestro Baudelaire: la «Noia», il «cielo», il «loto», «le ebbrezze dei bagni d’azzurro», «l’Ideale che annega nel fango». Praga è ben cosciente di cantare una «misera canzone», ovvero di denunciare la triste condizione esistenziale, ma preferisce raccontare la verità della sua situazione piuttosto che indossare la maschera dell’ipocrita.
Nella poesia «Lezione di anatomia» Arrigo Boito, artista multiforme (è anche musicista e librettista), descrive la vivisezione di un cadavere condotta con la precisione del nuovo linguaggio scientifico. Il medico indica «le valvole», «l’aorta», «le celle», si avvale persino del latino per alzare il tono della sua disquisizione («huic sanguinis circulationi»). Citando i grandi dotti del passato (Vesalio, Ippocrate, Harvey, Bacone, Sprengel, Koch), l’anatomista non riesce che a vedere materia all’interno del corpo, mentre il poeta pensa ai sogni, alle speranze e ai desideri dai quali sarà stata animata quella donna. Alla fine il medico che conduce l’analisi scopre un feto nel ventre della giovane. Boito percepisce che la riduzione dell’uomo a materia è una semplificazione inadeguata a testimoniare la profondità e la complessità della persona. Per questo motivo si ribella: «Scienza, vattene/ co’ tuoi conforti!/ Ridammi i mondi/ del sogno e l’anima!».
I versi sono espressione del disagio dell’uomo e dell’insoddisfazione di fronte alla presunzione della cultura positivista di ricostruire l’intero sapere ed eliminare la dimensione spirituale ed il Mistero dall’esistenza. Una vita senza un senso, senza un Padre, una vita in cui l’essere umano elimina Dio ponendosi lui sul piedistallo, viene alla fine deprivata di ogni attrattiva e svuotata di ogni possibile proposta di cammino. L’unica possibilità, quando non si voglia soccombere ed adeguarsi al perbenismo e alla borghesizzazione del sistema, è quella di cedere alla distrazione, al piacere, alla ribellione. È, però, una pura illusione, perché queste forme dell’eccesso non sono che mezzi con cui il sistema fagocita le sue vittime dando loro l’impressione di essere originali e alternative, ma, in realtà, omologandole e portandole all’autodistruzione.
La distinzione tra arte e vita è così labile che spesso le vite degli scrittori scapigliati si confondono con quelle dei protagonisti delle opere e il destino dei poeti è tragico come quello configurato nei romanzi o nei racconti. Molti degli scapigliati muoiono alcolizzati. Giovanni Camerana muore suicida.
La Scapigliatura anticipa la sensibilità decadente ormai alle porte. Nel romanzo Fosca Ugo Igino Tarchetti racconta la storia dell’ufficiale Giorgio diviso tra l’amore per la bella Clara e la brutta e ripugnante Fosca, personaggio umbratile e cupo. La descrizione di lei e la morte della donna saranno probabilmente spunto per il personaggio di Amalia nel romanzo decadente di Svevo intitolato Senilità (1898). Ma anche le atmosfere nere e ossessive di molte novelle scapigliate (si pensi al bellissimo racconto «La lettera U» di Tarchetti) anticipano altre esperienze letterarie del secondo Novecento.