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Sartre: «Così dipingerei Maria»

Nel 1940 il "cattivo maestro" dedica una splendida pagina a Maria, al suo travaglio umano di fronte al Figlio. Descrive la «tenera audacia e timidezza» con cui guardava Dio che si era fatto uomo nel suo grembo. Che le sorrideva. Che le assomigliava.

Poi diventerà un “cattivo maestro” come pochi altri, che trascinò dietro a sé più di una generazione, convincendola che le strade di un esistenzialismo senza prospettive soprannaturali fossero le uniche possibili. Ma chissà che quanto aveva scritto in gioventù, in un momento di difficoltà, non gli sia stato considerato come valida carta d’ingresso quando, giunto alla meta, avrà visto faccia a faccia quella “Verità” che aveva rifiutato. 

Sto parlando del filosofo francese Jean Paul Sartre che, prigioniero dei tedeschi a Treviri, durante la seconda guerra mondiale, ci ha lasciato — incredibilmente — una pagina, bella come poche, su Maria e sul suo travaglio umano di fronte a quel Dio che si era fatto uomo, sul bimbo che ella aveva partorito, e che giorno per giorno andava allevando.

Eccolo, quel testo sartriano: «Ciò che bisognerebbe dipingere sul viso di Maria è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano. Poiché il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne e il frutto del suo ventre. L’ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. E in certi momenti, la tentazione è così forte che dimentica che è Dio, lo stringe tra le sue braccia e dice: piccolo mio! Ma in altri momenti rimane interdetta e pensa: Dio è là!. E si sente presa da un orrore religioso per questo Dio muto, per questo bambino che mette paura. Poiché tutte le madri sono così attratte davanti a questo frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino che si sentono in esilio davanti a questa nuova vita che è stata fatta con la loro vita e che popolano di pensieri estranei. Ma nessun bambino è stato più crudelmente e più rapidamente strappato a sua madre, poiché egli è Dio ed oltre tutto ciò che lei può immaginare. Ed è una dura prova per una madre aver vergogna di sé e della sua condizione umana davanti a suo figlio. Ma penso che ci sono anche altri momenti, rapidi e difficili, in cui sente nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio. Lo guarda e pensa: questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo, che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive. Ed è in quei momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore, e cercherei di rendere l’espressione di tenera audacia e di timidezza con cui protende il dito per toccare la dolce piccola pelle di questo bambino Dio di cui sente sulle ginocchia il peso tiepido e che le sorride».

Effettivamente è un campo pieno di mistero e anche di riservatezza questo dell’infanzia di Gesù, sul quale si sono cimentati in moltissimi, almeno per quanto riguarda tutta quell’ampia iconografia che si è sforzata, coinvolgendo al contempo arte e spiritualità, di dare un volto ai personaggi del Vangelo, in primo luogo a Gesù ma anche a Maria. Lo ha fatto l’oriente cristiano-ortodosso con le sue icone. Ma, seppure in modo diverso, lo ha fatto anche il mondo cristiano-cattolico. Ne parleremo presto.

 

 

Il brano è tratto da Jean Paul Sartre, Bariona o il figlio del tuono: racconto di Natale per cristiani e non cristiani, 117 pagg., Marinotti, 2003.