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CRISI UCRAINA

Sanzioni, la Russia accusa il colpo

Dopo averlo negato per mesi, il Cremlino, per bocca del ministro delle Finanze Anton Silouanov, ammette le sue perdite: 40 miliardi di dollari, 90-100 miliardi per il calo del prezzo del greggio. E il gigante del petrolio Rosnef ha bisogno di aiuti per altri 40 miliardi di dollari.

Esteri 30_11_2014
Vladimir Putin

Da tempo sollecitata in Occidente e ostentatamente ignorata da Mosca, è venuta la prima quantificazione dei danni che l’economia russa sta subendo per le sanzioni economiche imposte da Stati Uniti e Unione Europea, a causa delle violazioni in Ucraina delle regole della comunità internazionale. Finora era avvolta nel più fitto riserbo, e lo ha infranto il ministro delle Finanze Anton Silouanov: quest’anno, ha detto, i danni ammonteranno a 40 miliardi di dollari, ai quali vanno aggiunti quelli, all’incirca per 90-100 miliardi di dollari, per la caduta del prezzo del petrolio. I 40 miliardi di dollari sono esattamente quelli che il vice ministro degli Esteri russo Alexey Meshkov, al recente terzo Forum euroasiatico di Verona, aveva stimato per quantificare le perdite dell’Unione Europea, quest’anno, a causa delle contro-sanzioni russe (che l’anno venturo salirebbero a 50 miliardi).

La dichiarazione di Silouanov è importante perché finora i responsabili del governo russo avevano tutti enfatizzato il boomerang di questa situazione: avevano cioè insistito sul fatto che l’Unione Europea non aveva ben calcolato le pesanti conseguenze che le sarebbero cadute addosso per la sconsideratezza delle sue sanzioni alla Russia. Adesso sappiamo che pure l’economia russa è toccata pesantemente delle sanzioni, forse molto di più di quanto il ministro Silouanov abbia calcolato. C’è da presumere che non poteva più essere oscurata una realtà sempre più evidente. Tanto che adesso l’accusa all’Occidente, formulata dal ministro degli esteri Serghei Lavrov, è addirittura “di voler rovesciare il nostro governo”.

Le cronache riferiscono innanzitutto della caduta del valore del rublo che ha provocato, nel tentativo di sostenerlo, l’intervento della Banca centrale, per oltre 70 miliardi di dollari; e di come non si sia arrestata la domanda di valuta forte: dollari, euro, franchi svizzeri. Fra le altre più serie conseguenze in campo finanziario c’è il blocco dei crediti; ne sta risentendo in particolare il gigante petrolifero Rosnef che per proseguire le sue attività avrebbe urgente necessità di ben 40 miliardi di dollari. Ed è sotto gli occhi di tutti l’aumento dell’inflazione. I generi alimentari occidentali, italiani in particolare (prosciutto, parmigiano, pasta) assottigliatisi e poi scomparsi per il divieto di importazione dai negozi, in alcuni sono adesso riapparsi, ma più costosi, per l’import attraverso paesi amici, come la Bielorussia. Al momento pare non abbiano successo i prodotti “simili”, che cercano di essere concorrenziali di quelli italiani.

In effetti la strada definita da Vladimir Putin di dirottare l’interesse primario del paese verso strutture finanziarie, interessi e prodotti di altri mercati, in particolare dell’Asia, si sta rivelando più ardua di quanto avesse previsto. Da secoli la Russia vive dell’intenso rapporto culturale ed economico con l’Europa, di cui fa parte, tanto che lo sguardo, i viaggi, le vacanze, gli acquisti, gli investimenti, dei russi sono rivolti verso Francia, Italia, Germania, Inghilterra, Austria. Ora, secondo il presidente, la Cina dovrà sostituire l’Unione Europea, grazie all’ottimo inserimento internazionale di alcune sue piazze finanziarie, specialmente quella di Hong Kong; e alla constatazione che i prodotti manifatturieri delle sue industrie, frutto di tecnologie occidentali, sono gli stessi di quelli che si sono affermati ormai sui mercati europei. Un ruolo succedaneo per altri beni occidentali, penetrati nell’area consumistica di Mosca e San Pietroburgo (altrove prevalgono estesi sacche di povertà) dovrebbe essere assolto, e intanto viene sollecitato, dai paesi dell’America Latina.

Putin ha detto e ripetuto che si tratta di scelte definitive e lo sta dimostrando in tutti i modi: intanto con il costante e ostentato potenziamento delle Forze armate; e non mollando la pressione militare sull’Ucraina, con migliaia di soldati attestati ai confini, mentre fa proseguire la guerra nelle due autoproclamate Repubbliche di Dontetsk e Luhansk. Il comandante delle forze Nato in Europa, gen. Philip Breedlove, ha appena confermato che la frontiera russa viene attraversata da autocolonne, l’ultima nei giorni scorsi scortata da autoblindo e composta da 40 camion, sette dei quali con a bordo dei soldati e venti con pezzi di artiglieria. La sua preoccupazione è anche per quel che sta accadendo in Crimea, che la Russia, in sfregio agli impegni di garante della integrità territoriale dell’Ucraina, si è annessa a marzo, per la crescente presenza di truppe, i trasferimenti di squadre di aerei e per “la possibile dislocazione di armi nucleari”. In contemporanea Putin ha stipulato un patto di alleanza militare con la sedicente Repubblica autonoma dell’Abkhazia, sul Mar Nero orientale, strappata alla Georgia con la guerra del 2008. Qui, prima che in Crimea, il veto russo all’ ONU aveva bloccato ogni possibile reazione del mondo occidentale.

Un patto del genere nessuno se l’aspettava, era dato come superfluo fin dal momento dell’occupazione e poi sancito con il trattato di cooperazione militare, della durata di 49 anni, firmato il 15 settembre 2009. L’averlo voluto potenziare e propagandare non può spiegarsi se non come l’avvertimento che la Russia non intende in alcun modo tollerare interferenze, e tanto meno ingerenze nel Mar Nero, un’area da essa considerata di esclusivo suo interesse, anche strategico (il territorio dell’Abkhazia è confinante con quello russo ove Putin ha sviluppato, con un investimento di miliardi di dollari, la regione di Sochi, teatro delle ultime Olimpiadi invernali). Putin accusa soprattutto gli Stati Uniti, ed anche l’Unione Europea, di voler sottrarre l’Ucraina dall’area dei suoi secolari interessi geo-politici, storici, religiosi e militari.

Di fronte a queste eloquenti manifestazioni l’Unione Europea sta reagendo con una politica attendista, quella del negoziato politico auspicato pure dalla nuova Commissione di Bruxelles (la sua rappresentante per la politica estera, Federica Mogherini, intende recarsi a Mosca quando “si riuniranno le condizioni”); ma è un negoziato che il Cremlino non intende per nulla avviare. Data per scontata, e per sempre, l’annessione della Crimea, sia Putin sia il suo ministro degli Esteri Lavrov non si sono stancati di dire che, la fine della guerra, Kiev deve cercarsela trattando con le autoproclamate Repubbliche separatiste. E ripetendo pure, contrariamente all’evidenza dei fatti, che la Russia è parte estranea al conflitto e nello stesso tempo minacciando che non può tollerare un’adesione dell’Ucraina alla Nato.

Gli avvertimenti dati a Kiev, di non compiere un passo del genere, non vengono però rivolti ai paesi europei che della Nato fanno parte (alcuni di essi, tanto per citare quelli baltici e la Polonia, ben conoscendo il “vizio” del lupo russo si son dovuti rifugiare nell’Alleanza Atlantica ). Ovvero, per politesse diplomatica, Mosca non dice ai paesi Nato che reagirà contro di essi se si permetteranno di accettare l’Ucraina nell’organizzazione. Il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeir avendo ben compreso questo nodo scorsoio – “che non infonde ottimismo”, ha dovuto riconoscere dopo l’ultimo incontro con Lavrov a Mosca – ha ipotizzato un’Ucraina “partner, ma non membro” della Nato.
 
Quale contropartita Steinmeir ha ricevuto per evocare un compromesso del genere? Non è stata rivelata, ma secondo alcuni analisti non esiste, e secondo altri risiede nella promessa russa di non compromettere i rifornimenti di gas ai paesi europei; e nemmeno all’Ucraina, visto che questa ha onorato gran parte del debito per pregresse forniture. Ma c’è anche un’altra spiegazione avallata dalla mancata reazione del Cremlino – che non ha fatto finora il ventilato ricorso a un tribunale internazionale per inadempienza del contratto – al “rinvio” della consegna da parte francese della portaelicotteri Mistral motivato, così si è espresso l’Eliseo, dalla persistente crisi ucraina. Di fatto, cioè, la Russia continuerà a fomentare la guerra, fingendo di non esservi implicata e accontentandosi (ma fino a quando?) che dall’Europa non venga dato a Kiev nessun aiuto militare; certa però che alla fine non potrà non esserci la destabilizzazione politica del regime avverso e il ripristino della sua egemonia.

Questo lo scenario con cui il 27 novembre l’Ucraina ha compiuto un altro passo verso la ricostituzione del suo apparato istituzionale espressa dalla rivolta del Maidan: si è infatti insediato il Parlamento uscito dalle elezioni politiche vinte dai partiti filo-europei che ha dato subito la fiducia al confermato premier Arsenij Iatseniuk. Il governo che formerà, disponendo del sostegno di una forte maggioranza, intende avviare in primis la lotta alla corruzione e la pulizia dell’apparato giudiziario, quindi la rinascita delle forze armate e quelle altre riforme che un giorno, si spera non lontano, dovranno consentire alla nazione di chiedere di far parte dell’Unione Europea. Una speranza che l’Occidente non potrà che sostenere debolmente per il confronto impari con Mosca e che Mosca farà di tutto perché non possa mai concretizzarsi.