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ONU

Santa Sede, la comunicazione non vale un tweet

La vicenda della condanna della Santa Sede da parte del Comitato Onu per i diritti dell’infanzia a proposito di pedofilia, ha messo tra l’altro in rilievo i soliti problemi di comunicazione da parte della Santa Sede.

Editoriali 13_02_2014
Sala Stampa vaticana

La vicenda della condanna della Santa Sede da parte del Comitato Onu per i diritti dell’infanzia a proposito di pedofilia, ha messo tra l’altro in rilievo i soliti problemi di comunicazione da parte della Santa Sede.

Della inadeguatezza della risposta vaticana abbiamo già detto (clicca qui), ma il modo in cui tutta la faccenda è stata gestita ha aumentato gli effetti negativi dell’attacco Onu.

Anzitutto la lentezza della risposta. Quella mattina del 5 febbraio a rilasciare dichiarazioni a caldo è stato monsignor Silvano Tomasi, il nunzio apostolico a Ginevra che aveva presentato la posizione della Santa Sede davanti alla Commissione Onu. Tomasi ha detto chiaramente che quello dell’Onu era con tutta evidenza un dossier già preparato prima ancora dell’audizione a cura di organizzazioni non governative ostili alla Chiesa cattolica e riconducibili alle lobby gay e abortiste. Ma era altrettanto evidente che Tomasi stava svolgendo un ruolo di supplenza, tanto è vero che in serata è intervenuto personalmente il segretario di Stato monsignor Pietro Parolin  - che ha smorzato notevolmente i toni e rimandato una risposta articolata della Santa Sede a un esame più attento del documento Onu - e solo due giorni dopo è arrivata la nota del portavoce vaticano padre Federico Lombardi in cui, pur sottolineando lo spirito di collaborazione tra Onu e Santa Sede, si muovevano dei rilievi precisi all’azione della Commissione sui minori.

Insomma, tre diversi interventi nell’arco di 48 ore con successivi aggiustamenti della posizione. Indecisioni e ondeggiamenti inconcepibili in tempi in cui la velocità e la precisione sono requisiti essenziali della comunicazione. La notizia della condanna Onu nel giro di pochi minuti ha fatto il giro del mondo, non si può attendere 48 ore prima di uscire con una dichiarazione ufficiale, che ovviamente avrà un impatto sull’opinione pubblica molto limitato se non nullo. In due giorni la notizia della condanna della Santa Sede è già stata digerita e metabolizzata, se poi si sceglie anche la strada di una dichiarazione lunga e complicata allora – dal punto di vista dell’opinione pubblica – è come non dire nulla.

Si sta facendo molto in Vaticano in questi ultimi anni per apparire al passo con i tempi, inseguendo tutti gli sviluppi dei nuovi media, sviluppare la presenza nei social network, ma poi quando serve di intervenire tempestivamente su un fatto grave come quello del 5 febbraio si buca clamorosamente. Un papa che twitta pensieri spirituali fa indubbiamente folklore e può essere anche di aiuto per tante persone, ma diventa inutile se poi non si riesce a comunicare in modo chiaro e tempestivo la posizione della Chiesa su fatti che nel giro di pochi minuti raggiungono ogni angolo del mondo e hanno la forza di distruggere l’immagine della Chiesa o distorcerne gravemente il messaggio. 

E qui si inserisce un secondo fattore che attiene alla struttura della comunicazione vaticana. Tutto infatti dovrebbe passare dal portavoce, che però nel caso di cui stiamo parlando, abbiamo visto che si fa vivo due giorni dopo il documento Onu. Come mai? Sembra che in effetti il 5 febbraio padre Lombardi non fosse a Roma, ma in un altro paese europeo per impegni non meglio specificati. Nulla di strano, ma l'assenza fisica del portavoce non può significare il black out della comunicazione. fatto sta che monsignor Tomasi ha dovuto concordare in fretta e furia con la Segreteria di Stato la posizione da tenere: le sue dichiarazioni da una parte riflettono ciò che aveva visto in Commissione (e in tanti anni di presenza alle Nazioni Unite) e dall’altra risentono della necessità di non sbilanciarsi troppo in attesa che da Roma arrivasse una risposta ufficiale. 

In altre parole, la vicenda si è consumata in un momento di vuoto di potere (per quel che riguarda la comunicazione) che è inconcepibile per una struttura come quella della Santa Sede che, peraltro, negli ultimi mesi ha moltiplicato l’assunzione di consulenti (pagati profumatamente) anche per la comunicazione, come ha recentemente messo in rilievo il vaticanista Sandro Magister (clicca qui). In particolare si ricorderà che dopo la vicenda Vatileaks, nel luglio 2012 è stato arruolato un giornalista americano, Greg Burke, vaticanista di lungo corso, per «mettere mano all'antica macchina della comunicazione, in modo che possa progredire». Compito dichiarato di Burke era quello di affiancare padre Lombardi per rendere più efficace e puntuale l’intervento della Chiesa. Ma alla prova dei fatti, vediamo che c’è solo improvvisazione e pressappochismo, come due anni fa.

Eppure non dovrebbe essere così difficile e neanche dispendioso rimettere a posto un servizio che è fondamentale per la missione della Chiesa. Encicliche, messaggi, discorsi del Papa da un certo punto di vista sono secondari rispetto al modo in cui vengono comunicati. Lo vediamo continuamente: le parole del Papa vengono strumentalizzate, tirate di qua e di là, usate in modo selettivo per essere utilizzate ai propri fini. Avere una struttura comunicativa che si preoccupa di garantire che su giornali e tv passi il messaggio corretto (per quanto è possibile) è un obiettivo prioritario. E non si risolve assumendo super consulenti di costosissime società internazionali. La Santa Sede in tempi recenti ha già avuto un’esperienza positiva durante il pontificato di Giovanni Paolo II quando portavoce era Joaquin Navarro Valls: basterebbe guardare ai criteri che avevano guidato quel periodo per trovare una soluzione efficace (e meno costosa) anche per oggi.