Santa Cecilia, una festa per ricordare il fine della musica
Il musicista di Chiesa deve essere consapevole che il fine ultimo non è il diletto dell’orecchio, pur necessario, bensì la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli. La musica è una risorsa straordinaria che ci può avvicinare a Dio, quando è santa, ma ci può anche allontanare da Lui, se indegna. Bisogna allora tornare alle fonti della Tradizione e avere l’atteggiamento di santa Cecilia, che cantava a Dio nel suo cuore…
La celebrazione della festa di santa Cecilia, colei che è patrona dei musicisti, è occasione di riflessione specialmente per chi ancora tenta di abbellire i riti sacri con musica appropriata. In effetti la riflessione dovrebbe essere duplice, da parte dei musicisti e da parte del clero.
Per i musicisti vale la pena richiamare la figura di Giacomo Lauri Volpi (1892-1979), uno dei più grandi tenori della prima metà del secolo passato, il tenore per cui Giacomo Puccini scrisse la parte del principe Calaf nella Turandot (almeno stando a quello che testimonia il librettista della stessa opera, Giuseppe Adami).
Lauri Volpi era una persona molto religiosa. Non molti sanno che uno dei suoi nipoti era padre passionista e che ebbe il piacere, alla sua ordinazione, di sentirsi cantare dal famoso zio, al telefono (in quanto non poteva essere presente), il Panis Angelicus di Cesar Franck. Un onore non da poco, considerando che quel parente era probabilmente il tenore più famoso al mondo.
Ma Lauri Volpi non era soltanto un grande tenore, anzi grandissimo, ma era anche uomo di grande cultura ed autore di libri di grande spessore tecnico e filosofico, tra cui “I misteri della voce umana” (1957, Dall’Oglio), in cui l’autore riflette sulla voce da un punto di vista metafisico, dicendo che si passa dall’uomo estetico all’uomo melodico e da questo all’uomo mistico.
Il musicista di Chiesa deve essere sempre consapevole che il fine ultimo non è il diletto dell’orecchio, pur necessario perché la musica ci deve attrarre; ma il fine ultimo è l’ascesi mistica. La musica sacra è esperienza spirituale, gloria di Dio e santificazione dei fedeli. Ecco perché in essa c’è una grande opportunità ma al contempo anche un grande pericolo, già identificato da sant’Agostino alla fine del quarto secolo:
«I piaceri dell’udito mi hanno impigliato e soggiogato più tenacemente, ma tu me ne hai sciolto e liberato. Fra le melodie che vivificano le tue parole, quando le canta una voce soave ed educata, ora poso, lo confesso, un poco, ma non al punto di rimanervi inchiodato, cosicché mi rialzo quando voglio. Tuttavia per entrare nel mio cuore insieme ai concetti che le animano, vi esigono un posto non indegno, e io difficilmente offro quello conveniente. Talvolta mi sembra di attribuire ad esse un rispetto eccessivo, eppure sento che, cantate a quel modo, le stesse parole sante stimolano il nostro animo a un più pio, a un più ardente fervore di pietà, che se non lo fossero; tutta la scala dei sentimenti della nostra anima trova nella voce e nel canto il giusto temperamento e direi un’arcana, eccitante corrispondenza. Ma spesso il piacere dei sensi fisici, cui non bisogna permettere di sfibrare lo spirito, mi seduce: quando la sensazione, nell’accompagnare il pensiero, non si rassegna a rimanere seconda, ma, pur debitrice a quello di essere accolta, tenta addirittura di precederlo e guidarlo. Qui pecco senza avvedermene, e poi me ne avvedo» (Confessioni, sant’Agostino).
La musica è una risorsa straordinaria che ci può avvicinare a Dio, quando è santa, ma ci può anche allontanare da Lui, se indegna. Ecco che ci ritorna alla memoria santa Cecilia che cantava nel suo cuore, come Maria che meditava le cose di Dio e le custodiva nel suo cuore. Il cuore come parte nobile, non opposta alla mente, non il sentimentalismo contro la ragione, ma il cuore come anima della ragione, come possibilità di volare più in alto. In una meditazione del 1975 don Divo Barsotti, parlando dell’arte, diceva: «L’arte puramente decorativa distrugge l’arte sacra, sia architettura, scultura o pittura. Non nego che vi siano grandissimi pittori italiani; nego che dopo un certo periodo della storia, questa pittura o scultura o architettura sia sacra: è una scultura e una pittura che dovrà essere portata fuori di chiesa. Bisogna dare tutta questa pittura allo Stato perché se la conservi, perché in realtà questa pittura distrae; è cosa antireligiosa e antisacrale».
Anche la musica sacra non deve mai essere decorativa. Ma, detto questo, vediamo anche la responsabilità della gerarchia, del clero, se e quando la musica sacra non è degna del culto divino. Musica e liturgia vanno insieme, se cade una cade anche l’altra. Dopo il Concilio Vaticano II si è richiamata l’attenzione continuamente alla formazione liturgica e musicale: ma che ne è stato? Oggi si fa più formazione in certi gruppi sui social network che nelle parrocchie. Tutto viene lasciato all’improvvisazione, non c’è pianificazione o investimento. Perché questa Chiesa, al contrario di quello che chiede spesso il Papa attuale, non è “in uscita” ma si rifugia nel suo attuale sistema a protezione dell’autopercezione di quello che si sente essere al momento.
Si è cioè da un lato deformata la liturgia, la musica e l’arte sacra, la teologia e via dicendo, mentre dall’altro molti sacerdoti proteggono un simile “status quo” post conciliare, piuttosto che andare alla fonte di quello che i documenti del Vaticano II hanno veramente detto. Oggi viviamo in un tempo in cui sono i laici a dover risvegliare la Chiesa, senza nulla togliere alla funzione insostituibile del clero. Henri de Lubac, nella sua Meditazione sulla Chiesa, diceva: «È stato ripetutamente osservato che i secoli più nutriti di tradizione parlavano poco della Tradizione. Ne erano impregnati. Ne vivevano. I Libri sacri, li leggevano con i suoi occhi. Non si ponevano, di solito, problemi a suo riguardo. La Tradizione non era per essi il passato, ma il presente. Più che un oggetto di studio era la forma del loro pensiero. Non ne scrutavano i documenti con le risorse della erudizione ed i metodi della critica: ne usavano come cosa loro, interpretandoli con una libertà che non escludeva ma, al contrario, includeva una fedeltà profonda al loro spirito. La realtà posseduta li dispensava, fino a un certo punto, dal bisogno di concettualizzarla. Possedevano in proprio tutta la ricchezza della Tradizione; la facevano fruttificare, poi la trasmettevano, senza rifletterci oltre».
Ecco, oggi ne parliamo tanto, a volte a sproposito, proprio perché si è voluta pensare una Chiesa, una liturgia, una musica sacra non come sviluppo della Tradizione, ma contro di essa.