RICERCHE
Sangue da cordone, una sfida culturale
Una nuova ricerca conferma che il cordone ombelicale va donato pubblicamente in quanto è prezioso per curare molte malattie.
Attualità
17_06_2011
Il “sangue di cordone ombelicale”, sangue rimasto nella placenta e prelevabile attraverso il cordone, può essere usato per curare un certo numero di malattie. Il prossimo numero della rivista Pediatric Blood and Cancer consacra una review a questo tema; la conclusione è che “il rischio di avere una delle poche malattie per le quali questo sangue è utile risulta troppo basso (meno di 1 su 50.000) per farne gravare il peso sulla singola famiglia”; è dunque preferibile la donazione pubblica, della quale chiunque può avvantaggiarsi.
Certo, forse nel futuro – e ce lo auguriamo - esisterà la possibilità di una medicina rigenerativa e non solo curativa, cosa che renderà più consistenti, per quanto minute, le possibilità di impiego per se stessi di questo sangue (saranno sempre casi rari e sarà sempre possibile usufruire di un donatore); ma “questa prospettiva è futuristica, e al momento manca di evidenza clinica”, spiegano gli autori della review. Largo allora alla donazione pubblica, dice la scienza, come avviene per il sangue degli adulti, in modo che ne usufruiscano i pazienti bisognosi senza distinzioni di razza o di nazionalità. Ottimo progresso scientifico ed ottima scuola di solidarietà.
Il Consiglio di Stato francese, il 6 maggio 2011 ha ribadito la volontà di non autorizzare in Francia la presenza di banche private per la raccolta del sangue di cordone ombelicale ad uso personale invece che ad uso pubblico. Sui media attenti alle mode del momento, questa decisione sarà parsa impopolare. Come: vietate di tenere per sé il proprio sangue? Ma la decisione francese, pari a quella vigente in Italia, si basa su dati scientifici: a schierarsi a favore della donazione pubblica piuttosto che della conservazione per uso privato è infatti il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists, il Comitato di Bioetica francese e gli ostetrici canadesi.
L’American Academy of Pediatrics sottolinea che conservare per uso proprio il sangue non deve essere raccomandato come assicurazione biologica salvo che se già si ha un parente malato su cui usare le cellule, e che “le famiglie possono essere emotivamente vulnerabili al marketing al momento della nascita di un bambino”; per il Comitato di Bioetica del consiglio d’Europa le banche private forse “promettono più di quello che possono offrire”.
Ma allora perché tenere per sé del sangue che potrebbe essere donato, se ha davvero scarse possibilità di essere usato per uso privato? Forse perché siamo abituati a pensare che fra poco tutto sarà reso possibile dalle tecnoscienze, senza magari riflettere che semmai queste nuove tecniche arrivassero, troveranno del materiale conservato sotto ghiaccio e c’è chi spiega che l’attuale congelamento non rende possibile coltivare quantità significative di cellule staminali non emopoietiche (Deutsches Ärzteblatt International, dicembre 2009). Ma forse anche perché in Occidente siamo presi dall’illusione di voler “controllare tutto”, anche se “sembra esserci così poco senso sia medico che economico”, come recita a proposito un editoriale della succitata rivista ematologica pediatrica. Ma il desiderio di controllo è un segno di profonda insicurezza: si cercano vie di salvezza spaventati da ipotesi remote, nonostante ci siano alternative (la donazione da parte di altri) e sebbene ci siano riserve sull’utilità del rimedio verso cui si corre e che si pretende a gran voce.
Ma è meglio alla nascita regalare al proprio bambino una poco attuabile “assicurazione sulla salute”, oppure la consapevolezza che il suo primo sangue è andato a salvare un bambino malato piccolo come lui?
Ma è meglio alla nascita regalare al proprio bambino una poco attuabile “assicurazione sulla salute”, oppure la consapevolezza che il suo primo sangue è andato a salvare un bambino malato piccolo come lui?