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San Paolo il mistico e una lezione per l'oggi

San Paolo ebbe doni mistici straordinari e ce li attesta nelle sue lettere. Perché Dio permette questi doni e perché la gente è molto attratta dai segni del soprannaturale? Il vangelo mostra che il segno straordinario è una strategia di educazione alla fede.

Ecclesia 29_06_2015
San Paolo

I fenomeni mistici straordinari (apparizioni, visioni, bilocazioni, stigmate, ecc.) creano sempre un certo imbarazzo, eppure li troviamo attestati nelle vite di molti santi. Non sono però questi fenomeni a rendere una vita “santa”. La Chiesa proclama “santo” solo chi, dopo la conversione e il battesimo, ha vissuto costantemente nella carità, e in modo totale, amando Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Dio. Eppure a volte questa vita di carità è accompagnata da fenomeni mistici straordinari. Diciamo pure che c’è una “mistica ordinaria”, che dovrebbe essere propria di ogni cristiano che ha fatto esperienza dell’amore di Dio. Ogni battezzato dovrebbe dire con san Paolo: «Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). Questa “vita in Cristo” e, attraverso Cristo, con il Padre e nello Spirito Santo è la mistica cristiana di base. Tuttavia Paolo stesso ha avuto alcuni doni mistici straordinari. Questo Paolo “mistico” è poco conosciuto. Vediamolo.

Anzitutto il primo e più grande dono straordinario è stato quello che ha determinato la sua conversione sulla via di Damasco. Esso è narrato da Luca negli Atti degli apostoli per ben tre volte, con delle leggere varianti a seconda del contesto. In At 9,3-6 si legge che Saulo (questo era il suo nome ebraico) fu avvolto da una luce accecante e udì una voce che gli diceva “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Egli rispose: “Chi sei, signore?”. E la voce: “Io sono Gesù, che tu perseguiti”. Qui dunque Saulo non ha visto Gesù, ma solo ne ha udito la voce. La stessa cosa è ripetuta in At 22,6-8 e 26,12-15. Paolo nelle sue lettere riconosce di essere stato un persecutore della Chiesa (1Cor 15,9), ma non fa mai un racconto della sua conversione. Scrive  però: «Forse che non ho visto Gesù, il Signore nostro?» (1Cor 9,1). Questo accenno indica che egli ne aveva parlato con i cristiani di Corinto, i quali dunque conoscevano la storia della sua conversione. E più avanti Paolo afferma: «Ultimo fra tutti [gli apostoli] egli apparve anche a me, come a un aborto» (1Cor 15,8). Qui Paolo afferma chiaramente di avere “visto” il Signore. È questo che lo autorizza a far parte degli “apostoli” come i Dodici, perché in quella visione Paolo ha ricevuto pure una “missione”, un “apostolato”, direttamente da parte del Signore risorto (cf. Gal 1,1). 

Luca accenna ancora ad altre “visioni” avute da Paolo. Durante un viaggio missionario in Asia Minore, una notte apparve a Paolo un abitante della Macedonia che gli disse: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (At 16,9). Paolo riconobbe che quella visione veniva da Dio e decise di partire per la Macedonia per annunziarvi la parola del Signore. Una volta giunto a Corinto, trovò non piccole difficoltà. Allora «una notte in visione il Signore disse a Paolo: “Non avere paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città”» (At 18,9-10). Alcuni anni più tardi, Paolo si reca a Gerusalemme, forse per portare la colletta raccolta tra le chiese dei greci come aiuto e segno di comunione con le chiese della Giudea. Ma lì Paolo viene riconosciuto da alcuni zelatori della Legge, che lo consideravano un apostata, e rischiò un linciaggio se non fosse intervenuto il tribuno romano. Rinchiuso nella fortezza romana, «la notte seguente gli venne accanto il Signore e gli disse: “Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma”» (At 23,11).

Una volta Paolo fu “rapito” in cielo. Lui stesso lo racconta, quasi costretto, segno che non amava parlarne. Infatti a volte questi doni straordinari sono strettamente personali. Nella seconda lettera ai Corinzi, scritta probabilmente nel 55, Paolo dice che «quattordici anni fa», cioè verso il 41, ai tempi del suo primo viaggio missionario, egli «fu rapito fino al terzo cielo» (2Cor 12,2). Se sia stato «con il corpo o senza corpo, non lo so, lo sa Dio» (v. 3). Dunque Paolo non sa dire se fosse stato con il suo corpo o solo spiritualmente. Usa poi il verbo “essere rapito”, per indicare che è stato trasportato non dalla sua volontà, ma da una forza non umana, divina. Perché poi parli di “terzo cielo” non è facile da spiegare. Gli antichi ebrei pensavano a una pluralità di “cieli”, forse con gradi di felicità diversi. Come poi Paolo si sia accorto di essere al “terzo” cielo, non lo dice. Afferma però di essere stato «rapito in paradiso» (v. 4). Dunque il “terzo cielo” coincide con il “paradiso”. Ora secondo Genesi 2-3 il paradiso è il giardino che Dio ha piantato per incontrare l’uomo e renderlo felice. La parola “paradiso” (che deriva dal persiano, e significa “giardino recintato”), si trova solo tre volte nel Nuovo Testamento: nel Vangelo di Luca 23,43, quando Gesù dice al “buon ladrone”: «Oggi sarai con me in paradiso»; nell’Apocalisse 2,7, dove il Signore dice che «al vincitore darò da mangiare l’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio».

Il terzo passo è il nostro, ed è curioso che si trovi proprio sulla penna di Paolo. Dunque l’Apostolo afferma di essere stato “rapito in paradiso”, cioè nel giardino di Dio, senza sapere come. Non dice però se ha visto qualcosa e che cosa; dice solo di aver udito «parole indicibili, che non è lecito a un uomo pronunziare» (v. 4). Questo testo è molto difficile da spiegare. Paolo sembra dire che ha udito parole che non può riportare, come se avesse ricevuto un segreto. Forse riguardavano lui solo. In ogni caso, poco più avanti l’Apostolo riconoscerà di aver avuto delle «rivelazioni straordinarie» (v. 7). Riconosce anche che queste grazie potevano anche farlo “montare in superbia”, e perché ciò non avvenisse, Dio permise che gli stesse vicino «un angelo di satana, incaricato di schiaffeggiarmi» (ivi). Sono cose che ci lasciano perplessi, e che solo i mistici, come ad esempio s. Padre Pio, hanno provato e potrebbero forse spiegare. Possiamo solo dire che questi doni straordinari dovevano servire a Paolo per essere fortificato nel suo apostolato, per non lasciarsi scoraggiare dalle prove e dalle difficoltà. Queste infatti erano molte. Paolo stesso le enumera: «...fatiche... prigionie... spesso in pericolo di morte; cinque volte ho ricevuto dai giudei i trentanove colpi di frusta; tre volte sono stato battuto con le verghe [romane]; una volta sono stato preso a sassate; tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde...; pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte dei falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità» (2Cor 11,23-27). C’era da rimanerne schiacciati, ma Paolo ha un sostegno in Gesù: «Tutto posso in colui che mi fa forza» (Fil 4,13).

Un caso di bilocazione spirituale? Paolo, stando a Efeso, ha ricevuto brutte notizie dalla Chiesa di Corinto. Tra queste c’è un caso di “immoralità”, cioè di uno che «convive con la moglie di suo padre» (1Cor 5,1). L’apostolo si meraviglia che i cristiani di Corinto non abbiano fatto nulla per far cessare una tale convivenza, anzi se ne siano vantati, forse come segno di apertura e di accoglienza. Egli allora interviene con la sua autorità. Un comportamento immorale all’interno della comunità non va tollerato, ma va “giudicato”, per il bene della comunità e del peccatore stesso. Come fare però, dato che Paolo è lontano? Risponde: «Orbene, io, assente col corpo ma presente con lo spirito, ho già giudicato come se fossi presente colui che ha compiuto una tale azione» (1Cor 5,3). Non basta però una comunicazione scritta. Paolo ordina che si faccia una convocazione ufficiale «nel nome del Signore nostro Gesù» e dice che in questa riunione anche lui sarà presente, “con il suo spirito”: «Essendo radunati insieme voi e il mio spirito, con il potere del Signore nostro Gesù, questo individuo sia consegnato a Satana per la rovina della sua carne, affinché il suo spirito possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore» (1Cor 5,4-5). È un testo difficile da interpretare, ma è certo che Paolo intende esercitare la sua autorità “a distanza”, facendosi “spiritualmente presente” in una precisa assemblea della Chiesa di Corinto.

Paolo ebbe anche le stigmate? Lui usa questo termine in Galati 6,17. Ma vediamo il contesto. Paolo sta polemizzando fortemente contro coloro che vogliono rendere obbligatoria la circoncisione anche per i pagani convertiti. Questo però sarebbe tradire il vangelo. Infatti in Cristo «non è la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura» (Gal 6,15), cioè condurre una vita di fede, operante nella carità. Per i giudei la circoncisione era un vanto, era nella loro carne il segno di un privilegio, di essere parte del popolo eletto. Per Paolo invece «l’unico vanto è nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo è stato per me crocifisso, come io per il mondo» (v. 14). E conclude: «D’ora innanzi non venitemi più a scocciare [con questi vostri discorsi]: io infatti porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» (v. 17).

È l’unica volta che la parola “stìgmata” ricorre nell’epistolario paolino e in tutto il Nuovo Testamento. In greco significa “marchio”, “segno”, a volte fatto con ferro rovente; quindi anche “tatuaggio”. Paolo non dice semplicemente di avere i segni di qualche ferita o di qualche percossa, ma dice di avere «le stigmate di Gesù», cioè quelle che Gesù ha riportato nella sua crocifissione. Erano dunque i “segni” sulle mani, sui piedi e nel costato come le ebbe Gesù? Possiamo escluderlo. Però resta un’affermazione per noi avvolta nel mistero. Certamente qualcosa che Paolo porta sul suo corpo, ed è qualcosa che corrisponde a quello che c’era sul corpo di Gesù. Del resto, non è proprio Paolo che nella stessa lettera ai Galati dice di avere fatto una «descrizione dettagliata» di Gesù Cristo crocifisso, cioè di averlo «rappresentato al vivo» davanti ai loro occhi (Gal 3,1)?

Torniamo ai “doni mistici straordinari”. Perché Dio li permette? E perché ancora oggi la gente pare così assetata di questi doni, da correre dove ci sia notizia di un’apparizione, di un santo taumaturgo, di un segno del soprannaturale? Molti criticano questi atteggiamenti e dicono: non bastano i sacramenti? Non basta la preghiera ordinaria? Certo, c’è molto da purificare in queste persone che vanno in cerca del sensazionale, del miracolistico. Vorrei però spezzare una lancia in loro favore. Anche nei Vangeli vediamo le folle andare dietro a Gesù, e non sempre per nobili motivi. Il Signore però non le rimprovera mai, ma le educa: «Voi mi cercate... perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna» (Gv 6,26-27).

La gente, sia pure attraverso la sua eccessiva credulità, dietro la quale però c’è sempre tanta sofferenza e angoscia, va condotta per mano verso la fede autentica. Dogmi quali l’immortalità dell’anima, il purgatorio, l’eternità dell’inferno, ieri come oggi sono difficili da accettare, e per questo il miracolo, il segno straordinario vanno considerati come un valido aiuto per una fede vacillante, come una strategia di educazione alla fede. Ma una volta arrivati a camminare, possiamo anche fare a meno di quella stampella. Oggi invece il racconto di un prodigio fa scattare meccanismi di difesa, se non di rigetto.  

La Chiesa fa bene a usare un estremo rigore nell’accertare un fatto prodigioso o miracoloso, e ciò è tutto a vantaggio della fede stessa, ma non di rado un ipercriticismo riduce la fede a qualcosa di astratto, senza più un impatto reale sulla vita. Di fatto oggi, soprattutto nelle persone colte, si è instaurata la convinzione che il divino e l’umano siano due sfere indipendenti, che non si toccano. Diventa allora difficile pensare a un Dio che intervenga nella storia, e i racconti biblici miracolosi sono interpretati esclusivamente come racconti mitici. È vero che il più grande prodigio è la conversione del peccatore, ma spesso sono quei fatti umanamente inspiegabili che aprono il cuore al divino e fanno cambiare la vita.

È il desiderio di “toccare con mano” la presenza di Dio, che allora come oggi, asseta le anime non contaminate da una falsa cultura. Quel desiderio non è solo la manifestazione di una “religiosità popolare” da disdegnare, ma rivela una verità più profonda, e cioè che la potenza e la Provvidenza divine avvolgono continuamente il mondo e la sua storia, purché si abbiano occhi per vederle. Per questo sono necessari i “santi”, ovvero “uomini e donne di Dio”, i quali sanno suscitare nelle anime la capacità di cogliere, per fede, il soprannaturale, in forza del passaggio per cui «dalle cose visibili siamo portati a credere alle realtà invisibili» (S. Gregorio Magno). Non è forse anche questo il senso dell’incarnazione del Verbo, che ha voluto essere visto, sentito, toccato, come ha scritto l’apostolo Giovanni (1Gv 1,1-3)?

Per questo è bello quando il popolo ancora oggi è capace di gioire all’ascolto dei segni dell’invisibile, oppresso – se mai – per la paura di un loro silenzio. La vera angoscia, ai tempi di Paolo come ai nostri, non è l’insicurezza materiale, ma il sentirsi in un mondo dove Dio è pensato assente e dove si fa di tutto per dichiararlo assente, precludendo così alla storia personale e sociale la vera via di salvezza.