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San Gregorio VII

Al suo nome è legata la “Riforma gregoriana”, la vasta opera riformatrice già avviata dai suoi predecessori e di cui fu il maggior rappresentante. Scomunicò Enrico IV, che poi fece la celebre penitenza di Canossa, nell'era della "Lotta per le investiture", difendendo il diritto della Santa Sede nella nomina dei vescovi

Santo del giorno 25_05_2022 English Español

In quel periodo travagliatissimo per la cristianità che fu l’XI secolo emerse la personalità straordinaria di san Gregorio VII (c. 1015-1085), al cui nome è legata la “Riforma gregoriana”. Venne chiamata così perché Gregorio fu il maggior rappresentante e sostenitore della vasta opera riformatrice già avviata dai suoi predecessori, che ridiede linfa a una Chiesa svilita dalla diffusa immoralità del clero e dalle ingerenze imperiali.

Al secolo Ildebrando di Soana, toscano di nascita, studiò da giovane a Roma e poi all’Abbazia di Cluny, con in mezzo un periodo di formazione in Germania. In questa fase Ildebrando poté conoscere i religiosi più attivi nel promuovere la riforma della Chiesa, come per esempio Brunone di Toul. Brunone divenne papa nel 1049 con il nome di Leone IX (1002-1054) e si adoperò per difendere il celibato ecclesiastico e combattere la simonia.

Proprio san Leone IX lo inviò come legato papale in Francia, dove Ildebrando si trovò a gestire il caso di Berengario di Tours, che aveva creato scandalo mettendo in dubbio la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. L’autorevolezza di Ildebrando nella vita della Chiesa andò progressivamente crescendo. Collaborò anche con i successori di Leone IX, in un frangente storico in cui vigeva il “Privilegio di Ottone” (promulgato nel 962), che richiedeva l’assenso dell’imperatore per l’elezione del pontefice. Era a tal punto stimato nella Chiesa fedele a Cristo che i cardinali riformatori, sul letto di morte di Stefano IX, giurarono che non avrebbero eletto alcun papa fino al ritorno a Roma di Ildebrando: si decisero poi a raggiungerlo in Toscana, eleggendo insieme Niccolò II (†1061). Fu quest’ultimo, con la bolla In nomine Domini (1059), a porre fine al potere di intromissione dell’imperatore nell’elezione papale, stabilendo la prerogativa esclusiva dei cardinali nella scelta del papa.

Ildebrando salì al soglio pontificio nel 1073 e continuò energicamente la riforma della Chiesa. Agì contro la simonia, il concubinaggio ecclesiastico e le altre immoralità che attanagliavano il clero. Dal ricco epistolario che ci è pervenuto (438 lettere), emerge tutto il suo carisma. Così scriveva a sant’Ugo di Cluny: “Se poi con gli occhi dello spirito guardo a occidente, a sud o a nord, a stento io trovo vescovi legittimi per elezione e per condotta di vita, che si lascino guidare… dall’amore di Cristo e non dall’ambizione mondana”. Nel 1075 scrisse il documento noto come Dictatus Papae, un elenco di 27 proposizioni in cui affermava che solo il pontefice può di diritto essere chiamato “universale”, perché la Chiesa è stata fondata direttamente da Dio; e solo il papa può deporre e reinsediare i vescovi, e fare altrettanto con l’imperatore. Gregorio VII affermava in breve che il potere spirituale del papa è superiore al potere temporale di qualsiasi sovrano, perché ogni successore di Pietro opera in terra come Vicario di Cristo.

Nel frattempo Enrico IV di Franconia (1050-1106) continuava illegittimamente a nominare vescovi in Germania, acuendo lo scontro passato alla storia come “Lotta per le investiture”. Gregorio scomunicò una prima volta il sovrano. Il quale, trovandosi delegittimato agli occhi dei sudditi, si vide costretto a chiedere il perdono del papa, con la celebre penitenza di Canossa.

Negli anni successivi Enrico IV si rafforzò, proseguì nei suoi tentativi di egemonia sulla Chiesa, elesse perfino un antipapa e assediò Roma, obbligando Gregorio a chiedere l’aiuto dei Normanni di Roberto il Guiscardo. I Normanni liberarono sì l’Urbe dagli invasori ma finirono per saccheggiarla selvaggiamente, senza risparmiare nemmeno le chiese. Era il 1083. Il papa fu di fatto costretto a passare l’ultima parte della sua vita in esilio a Salerno, dove sulla sua tomba venne scolpita la frase: “Ho amato la giustizia e ho odiato l’iniquità: perciò muoio in esilio”. In una lettera ai monaci di Marsiglia aveva scritto parole che suonano attuali: “Sono rari i buoni che anche in tempo di pace sono capaci di servire Dio. Ma sono rarissimi quelli che per Suo amore non temono le persecuzioni o sono pronti a opporsi decisamente ai nemici di Dio. Perciò la religione cristiana - ahimè - è quasi scomparsa, mentre è cresciuta l’arroganza degli empi”.

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