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EDITORIALE

San Giuseppe, il padre che ci vuole

Giustizia, temperanza, fortezza: in un clima culturale che tende a sopprimere la figura del padre, San Giuseppe si pone come un modello di paternità,perché ricorda ad ogni papà alcuni principi fondamentali, alcune verità che vanno quotidianamente riscoperte. 

Editoriali 19_03_2016
San Giuseppe con Gesù

La festa di San Giuseppe, che la Chiesa pone al 19 di Marzo, sembra che sia una delle ricorrenze a tutt’oggi più ricordate. La piccola città in cui vivo alle porte di Milano, Cernusco sul Naviglio, ogni anno si riempie di bancarelle e d'iniziative d'ogni genere.  Le più caratteristiche vendono le “fritture”, ovvero le zeppole napoletane e le sfincie importate dalla Sicilia, ma c'è anche il momento del falò, che simboleggia l'arrivo della primavera (quest'anno davvero contemporaneo). Attività che portano il gusto di una tradizione e, quindi, di un significato tramandato nel tempo. Mi domando, però, se esse non siano più un’occasione commerciale che spirituale, e se le persone, in primis i cristiani, s’interessino davvero al motivo che dà origine alla festa. 

Bisogna ammettere che Giuseppe è un Santo scomodo. La sua vita non ricalca gli stereotipi “di grido” della contemporaneità. È molto più facile apprezzare la fedelissima obbedienza di Francesco d’Assisi, che può essere fraintesa per un fondamentalismo religioso, oppure la gratuità di Madre Teresa di Calcutta, riducibile ad un sentimentalismo buonista, piuttosto che la fedeltà del falegname Giuseppe.

Ma questo avviene, mi pare di capire, perché si è perso il senso di una parola importante: la virtù. Quando chiedo ai miei pazienti chi siano le persone virtuose, quelle che, magari, avrebbero il desiderio d'imitare, in genere mi si risponde: i calciatori, le veline, i grandi imprenditori come Steve Jobs, gli uomini di successo come Barack Obama. Non che io neghi a priori una positività delle loro vite, ma m’interessa capire quali siano i tratti salienti delle loro virtù. Senza alcun dubbio il primo di essi è la forza, seguita dal successo ed infine, più nascosta ma ad essa antecedente e conseguente, il piacere. Di sicuro San Giuseppe ha poco in comune con tali caratteristiche. Egli piuttosto esprime altri valori, che oggi vengono poco apprezzati: la fortezza, l'abnegazione, la pazienza, la giustizia, la prudenza, la speranza, la fiducia.  

La psicologia medievale, e prima ancora la psicologia dell'antichità, ovvero la disciplina che si occupa della formazione del carattere e che all'epoca veniva chiamata Etica, ha descritto la virtù come una disposizione interiore in grado di favorire l'adesione al bene. Al suo opposto è il vizio, un'abitudine negativa che ostacola il perseguimento della felicità. L'uomo virtuoso compie il bene, e lo fa perché è bene farlo, ovvero è giusto, è vero, è bello. Facciamo un esempio. Oggi mi trovavo alla festa di San Giuseppe, appunto, presso la scuola di mia figlia. Durante il banchetto un bambino ha iniziato a rovesciare tutti i bicchieri presenti sul tavolo, pieni e vuoti. Per lui era un gioco, ma così facendo i contenuti si disperdevano inutilmente ed imbrattavano la tovaglia. Un adulto, accortosi dell'accaduto, lo ha ripreso, invitandolo a cambiare attività. Il bambino, però, continuava a perseverare. Allora ha insistito, ma ciononostante, dopo il rimprovero, riprendeva imperterrito. Solo quando, comprensibilmente spazientito, l'adulto si è messo a ricercare con lo sguardo il padre del bambino, allora un giovane uomo dall'aspetto fiacco e remissivo, che si trovava proprio di fronte al tavolo in cui avveniva l'episodio (e quindi che aveva assistito a tutto sin dall'inizio) si solleva dalla sedia e timidamente avanza una presa di posizione.

Ben presto ho capito perché quel padre non sia scattato prontamente al primo segnale d'allarme: poiché si sentiva in imbarazzo nel farlo, poiché il figlio era un capriccioso dalla testa dura, le cui scenate avrebbero rivolto lo sguardo di tutti su di lui. Per carità, anch'io sono padre, e so che in certi momenti le forze sembrano venir meno. Dunque riporto l'episodio solo per coglierne gli aspetti in esso contenuti, senza ricavarci alcun moralismo. È stato evidente che quel genitore possedesse un'abitudine negativa, lassista, arrendista. L'uomo virtuoso, al contrario, avrebbe contrastato la paura del giudizio altrui e sarebbe intervenuto prontamente, poiché era giusto farlo. Il bene, infatti, non si persegue per secondi fini, per un'utilità o per una conseguenza che essa può apportare, bensì perché è bene farlo, e basta. Il carattere d'un uomo, come scrisse lo psicoterapeuta austriaco Rudolf Allers, evidenzia la “legge di preferenza” secondo cui agisce nella realtà, ovvero i valori che esprime e le virtù che possiede. 

Acquisire una virtù non è immediato e richiede talvolta pazienza, perseveranza e fatica. Qualità non sempre stimate oggigiorno. Imparare a seguire il proprio criterio di giudizio e non quello della maggioranza, agire rettamente (giustizia), dominare le passioni (temperanza), esprimere la forza con ragionevolezza e prontezza (fortezza), ecc. spesso richiede un'ascesi, cioè un percorso di allenamento, una vera e propria paideia

La storia di San Giuseppe ci insegna proprio questo. Egli ci testimonia che l'aver riconosciuto Maria come sua sposa e Gesù come suo figlio è stato un bene. L'aver creduto a quella storia inizialmente stramba, per non dire folle, è stata la cosa giusta. L'aver dato fiducia ai suoi sogni, immagini spesso così effimere, si è rivelato prudente. Tutto questo ha portato un grande bene a lui e a tutta l'umanità. Non senza fatica, non senza dominio di sé, non senza abnegazione. Se guardiamo le storie di alcuni calciatori o di diverse show-girl non troviamo alcun segno di tale forza. È più facile tradire, lasciare, abbandonare, che accudire, custodire, amare. Difendere i propri progetti e le proprie idee vien sempre più facile che accettarne di nuove e di diverse.

Per questo motivo San Giuseppe è un esempio di paternità. Perché ricorda ad ogni papà alcuni principi fondamentali, alcune verità potremmo dire, che vanno quotidianamente riscoperte. Proviamo a descriverne due, grazie agli apporti delle psicologie contemporanee. 

Diversi autori che si inscrivono nella psicologia dinamica hanno sottolineato l'importanza del padre nei primissimi mesi di vita del bambino. Proprio quei momenti in cui sembra che il neonato stia in simbiosi con la madre e, dunque, poco s'interessi a terzi. Il padre cosa fa? Compie un'opera straordinaria: rompe l'unità chiusa della madre col bambino e s'introduce in essa. Così facendo aiuta il piccolo a vedere che c'è altro oltre la madre: ci sono altre persone, più avanti nel tempo ci saranno i giochi (che, guarda a caso, le ricerche dicono essere l'attività caratteristica dei padri coi figli), c'è insomma il mondo.

Il padre permette al neonato d'introdursi alla realtà. Alcuni autori ritengono che l'assenza del padre in tale momento significativo possa indurre la formazione di un vincolo eccessivamente esclusivo del bambino con la madre, impedendogli persino il riconoscimento della realtà. Oltre a questo, il gesto del padre veicola molteplici significati. Claudio Risé ha sottolineato la ferita che il papà produce al figlio nell'intromettersi tra lui e la madre. Un dolore, una fatica. Il mondo di oggi sembra essere allergico ad essi, spaventato da qualsiasi malessere che, infatti, va prontamente sanato. Da qui la confusione esistente tra benessere e felicità.

Invece la ferita che il padre produce in quel frangente è maturativa, attiva, cioè, una dinamica estremamente importante: insegna al figlio che attraverso il dolore, attraverso la fatica, attraverso persino la sofferenza si può raggiungere un bene maggiore. Gli insegna, insomma, il principio della fortezza. Per aspera ad astra, si potrebbe dire.

Un altro insegnamento simbolico che viene veicolato è l'esistenza di una legge a sé stessi più grande: un ordine preesistente ed infinitamente imponderabile. La realtà nessuno se la dà a se stesso, essa esiste già da prima, ed è costituita da un mondo fatto di regole in cui è bene orientarsi secondo dei criteri giusti. Se seguo le regole della realtà posso incontrare la felicità. Se, invece, ad essa mi oppongo, tentando di combatterla o di eluderla, io stesso mi rivolto contro di me.

Mi sono occupato dei figli senza papà in un libretto uscito di recente, Fatherless, l'assenza del padre nella società contemporanea. Approfondendo le ricerche della psicologia sperimentale ho scoperto che i figli senza papà corrono maggiormente il rischio di essere più ansiosi e di possedere meno autostima dei figli col padre presente. Anche da un punto di vista della socializzazione i fatherless sono maggiormente soggetti all'introversione, a diventare più facilmente antisociali o, all'opposto, conformisti.

Il padre, infatti, gioca un ruolo fondamentale in una seconda fase di sviluppo: all'incirca dagli otto ai dodici anni, cioè nella pubertà o prima adolescenza. In quegli anni la ragione prende pieno possesso del proprio potere sulle passioni (un potere “politico” e non “dispotico”, come diceva San Tommaso d'Aquino), lo sguardo si pone più sulle relazioni che sui giochi, gli affetti e la sessualità iniziano a farsi sentire ed a porre le domande di senso alla vita. Il padre in tutto questo processo rappresenta una guida, specialmente al mondo dei maschi. Ai ragazzi li introduce alle modalità più proprie delle relazioni: se c'è qualcuno in classe che procura paura, il padre aiuterà il figlio ad affrontarlo, a sconfiggere il timore, a sviluppare il coraggio. Con l'esempio, indirettamente, o con delle istruzioni più dirette. Alle ragazze, invece, insegnerà cosa vuol dire amare ed essere amate, ad apprezzare l'alterità dei sessi, a costruire un rapporto affettivo all'altezza del desiderio di felicità (non sarà un caso se alcune ricerche riportano che le figlie senza papà intrattengono il primo rapporto sessuale ben prima delle figlie con papà presente).

Insomma, in un clima culturale che tende a sopprimere la figura del padre, attraverso leggi criticabili nonché la diffusione di ricerche scientifiche fasulle ed inattendibili (come la maggior parte, ad esempio, di quelle sull'omogenitorialità), la figura di San Giuseppe ci ricorda che il bene dei figli è di godere di un papà e di una mamma, nonché di accettare una realtà più grande a sé stessi e, in fondo, persino più bella di qualsiasi immagine d'invenzione, all'interno della quale il papà li introduce attraverso la personificazione di una guida sana, forte e giusta.