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San Giuseppe Moscati

«Il mio posto è accanto all’ammalato», diceva quel luminare della medicina che risponde al nome di san Giuseppe Moscati (1880-1927), un modello per ogni medico e ogni uomo, che visse in modo esemplare il rapporto tra scienza e fede

Santo del giorno 12_04_2019

«Il mio posto è accanto all’ammalato», diceva quel luminare della medicina che risponde al nome di san Giuseppe Moscati (1880-1927), un modello per ogni medico e ogni uomo, che visse in modo esemplare il rapporto tra scienza e fede. Provvisto di una solidissima preparazione scientifica, autore di numerosi saggi su riviste di settore italiane e internazionali, tra i primi in Italia a usare l’insulina per curare il diabete, libero docente universitario di chimica fisiologica (caldeggiato da Antonio Cardarelli) e chimica medica, Moscati non aveva dubbi su quale dovesse essere il fine della vita terrena: «Non la scienza ma la carità ha trasformato il mondo in alcuni periodi; e solo pochissimi sono passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell’eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa per un più alto ascenso, se si dedicheranno al bene». E ancora: «Il progresso sta in una continua critica di quanto apprendemmo. Una sola scienza è incrollabile e incrollata, quella rivelata da Dio, la scienza dell’al di là».

Settimo di nove figli, nacque a Benevento e a quattro anni si trasferì con la famiglia a Napoli (nel mezzo c’era stata una parentesi ad Ancona), per via del lavoro del padre, un magistrato. Già a 12 anni iniziò ad assistere il fratello Alberto, che aveva riportato un trauma cranico a causa di una grave caduta da cavallo (morirà per complicazioni nel 1904), e fu allora che verosimilmente maturò la sua vocazione, unita alla consapevolezza della provvisorietà della vita in questo mondo. Nel 1897 si iscrisse alla facoltà di Medicina, una delle più influenzate dalla cultura materialista e atea, tipica del Positivismo. Ma Giuseppe, il cui motto era «amare Dio senza misura, senza misura nell’amore, senza misura nel dolore», ne uscì ancor più fortificato nella fede, laureandosi nel 1903 con una tesi sull’ureogenesi epatica, giudicata degna di stampa.

Pochi mesi più tardi iniziò a lavorare all’Ospedale degli Incurabili e nel 1906, durante l’eruzione del Vesuvio, il suo intervento nella struttura distaccata di Torre del Greco si rivelò provvidenziale: fu lui a farla evacuare tempestivamente e si mise di persona a caricare gli ammalati sugli automezzi. Il tetto crollò poco dopo aver messo in salvo l’ultimo paziente. Quando il colera colpì Napoli nel 1911, la sua relazione sulle opere necessarie per il risanamento della città contribuì a limitare l’epidemia. Commovente era poi la carità che mostrava verso i malati più poveri. Nell’anticamera del suo studio privato aveva posto un cestino con la scritta: «Se hai, mettici quanto vuoi. Se non hai, prendi». E sono varie le testimonianze di pazienti che si videro restituire il denaro dato al santo, il quale, mentre esortava i giovani allievi a sposarsi, visse sempre da celibe e in castità perché vedeva la sua missione da medico alla stregua del sacerdozio, in cui «il dolore va trattato non come una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità, occupandosi del corpo e dello spirito».

Sorgente del suo amore per il prossimo erano la preghiera e l’Eucaristia, vero centro della sua vita, che riceveva quotidianamente. Digiunava in preparazione alle festività della Madonna, verso la quale era devotissimo, e non nascondeva mai la sua fede, noncurante delle derisioni di colleghi massoni e anticattolici. «Ama la verità, mostrati qual sei […] e se la verità ti costa la persecuzione, tu accettala». Era sempre umile e di buona compagnia. Un giorno, mentre dirigeva l’Istituto di anatomia patologica, chiamò i suoi assistenti nella sala delle autopsie per mostrare loro un crocifisso, sotto il quale si leggeva: Ero mors tua, o mors, «Io sarò la tua morte, o morte». Grazie alla fede nel Risorto non temeva la morte, che lo colse all’improvviso a meno di 47 anni (proprio lui, consapevole della necessità di curare l’anima, diceva che «per chi è preparato, la morte improvvisa è la migliore»), venendo poi onorato da un immenso corteo funebre. In un’epoca come la nostra, pervasa da una cultura anti-vita che ha fatto entrare l’aborto e l’eutanasia tra le pratiche ‘mediche’, l’esempio di san Giuseppe Moscati è più attuale che mai.

Patrono di: anatomo-patologi

Per saperne di più:
L’arte del guarire. Storia della medicina attraverso i santi, di Paolo Gulisano, 2011