San Charles de Foucauld
Prima della conversione, fu un celebre esploratore. Dal suo amore per l’Eucaristia sgorgò quello per ogni uomo. Fu così che divenne «il fratello universale», al cui carisma si ispirano oggi tanti gruppi e congregazioni di laici e religiosi.
«In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). In una lettera scritta quattro mesi prima di morire, san Charles de Foucauld (1858-1916) rivelò che questo era stato il brano del Vangelo che più gli aveva trasformato la vita.
Celebre esploratore prima della conversione, la sua figura è di un’attualità dirompente per almeno due aspetti: il suo amore per l’Eucaristia, che riconobbe quale presenza viva di Dio capace di rinnovare l’uomo; il rapporto con i non cristiani e soprattutto con i musulmani. Visse in mezzo a loro, li aiutò, li amò. Da questo amore nasceva il suo desiderio di far loro conoscere Gesù, non attraverso la predicazione (non era il suo carisma e riteneva che prima bisognasse preparare il terreno) «ma con la preghiera, l’offerta del Santissimo Sacrificio, la penitenza, la pratica della carità…».
Carlo era nato il 15 settembre 1858 in Francia, a Strasburgo, in una famiglia nobile. La madre, molto devota, gli insegnò a pregare. A meno di 6 anni rimase orfano di entrambi i genitori. Ormai adolescente, cominciò a leggere di tutto. Anche letture che gli fecero male. A poco a poco perse la fede. «A 17 anni dentro di me c’erano soltanto egoismo, vanità, cattiveria, desiderio di male, ero come impazzito…». Alla morte del caro nonno materno tutta l’eredità andò a Carlo, che la dissipò presto, cercando la sua felicità nelle feste, nei piaceri della gola, nelle donne.
La carriera militare lo portò in Algeria e Tunisia. Finite le spedizioni, per lui una goduria, si dimise dall’esercito poiché detestava la vita in caserma e aveva una passione: viaggiare. Volle esplorare il Marocco, allora in gran parte proibito agli europei. Carlo si preparò meticolosamente per 15 mesi, imparò l’arabo e l’ebraico, e partì, in compagnia di un rabbino. Lui stesso, giunto nella parte più pericolosa del Marocco, si travestì e si finse rabbino. Portava sempre con sé, di nascosto, un taccuino di 5 centimetri quadrati e una matita minuscola per appuntare tutto quanto vedeva di interessante. L’avventura terminò 11 mesi più tardi e gli valse - oltre a sassate, fame e pericoli vari - la medaglia d’oro della prestigiosa Società di Geografia.
Al ritorno in Francia trascorse dei mesi dai familiari, conoscendo «delle persone molto intelligenti, virtuose e cristiane». Sarà in particolare la bellezza dell’anima di una cugina, Marie de Bondy, a fargli credere che, magari, la fede che aveva smesso di professare non fosse una follia. «Ho iniziato ad andare in chiesa, senza essere credente, non mi trovavo bene se non in quel luogo e vi trascorrevo lunghe ore continuando a ripetere una strana preghiera: “Mio Dio, se esisti, fa’ che io Ti conosca!”». Scorrendo tra i suoi scritti, in alcuni tratti sembra di leggere sant’Agostino. E sarà proprio in una chiesa dedicata al Doctor Gratiae che Carlo, su consiglio della cugina, troverà il sacerdote decisivo nella sua conversione: «Mi sono quindi rivolto all’abate Huvelin. Gli ho chiesto delle lezioni di religione: mi ha ordinato di mettermi in ginocchio e di confessarmi, di andare a ricevere la Comunione seduta stante…».
Lo Spirito Santo stava già lavorando, ma «non ci misi un giorno solo a credere; a volte i miracoli del Vangelo mi sembravano incredibili, altre volte volevo intercalare le mie preghiere con brani del Corano. Ma la grazia divina e i consigli del mio confessore dissiparono queste nubi». Quando in Carlo sorse il desiderio della vita religiosa, di vivere solo per il Dio che aveva scoperto, fu don Huvelin a frenarne (e verificarne), per tre anni, gli entusiasmi. Lo fece prima andare in pellegrinaggio in Terra Santa. E lì, tra Nazareth, Gerusalemme, Betlemme - dove partecipò alla Messa nella notte di Natale («la dolcezza che ho provato a pregare in quella grotta, dove erano risuonate le voci di Gesù, Maria e Giuseppe, è stata indicibile») - capì che la sua vocazione era di condurre la vita nascosta di Nostro Signore nei primi trent’anni sulla terra.
Il 15 gennaio 1890 entrò in un’abbazia trappista, credendolo il miglior modo per seguire Gesù, perché «ognuno sa che l’amore ha come primo effetto l’imitazione». Ma pian piano realizzò di desiderare una povertà più radicale per meglio conformarsi al suo Amato. In quel periodo ebbe la prima idea di una nuova congregazione, fondata sul lavoro manuale e «molta preghiera». Si sarebbero dovuti «formare solo dei piccoli gruppi, espandersi ovunque, ma soprattutto nei paesi infedeli, così abbandonati, e dove sarebbe tanto dolce aumentare l’amore e i servitori di Nostro Signore Gesù». Nel gennaio 1897 ottenne dal superiore generale di lasciare i trappisti. Andò a Nazareth, dove per tre anni lavorò come tuttofare dalle Clarisse, vivendo in una piccola capanna di legno.
Iniziò a chiamarsi Carlo di Gesù e completò una Regola, che aveva al suo cuore l’adorazione del Santissimo Sacramento. Proprio perché sarebbe stato impossibile vivere quella Regola «senza che ci siano un prete e un tabernacolo», decise di ricevere il sacerdozio. L’imitazione della vita di Gesù era, per de Foucauld, un tutt’uno con il culto dell’Eucaristia. L’adorazione del Santissimo Sacramento fu la sua priorità perché era questa la causa dell’urgenza di voler raggiungere gli altri. Secondo il santo, infatti, la ‘sola’ Presenza eucaristica è irradiatrice di grazie e sostiene la santificazione di chi sta nelle vicinanze.
Partì poi per Béni Abbès, oasi nel Sahara algerino. Abitò in un eremo con cappella, dove trascorse ore e ore davanti al tabernacolo. Quell’eremo si trasformò in un viavai di ammalati, poveri, soldati, semplici curiosi, con cui Carlo - che voleva che tutti lo considerassero «come loro fratello, il fratello universale» - parlava e tesseva amicizie. Nel 1904 iniziò la sua missione presso i Tuareg, passando da un accampamento all’altro in mezzo al deserto. Ne studiò la lingua e la cultura, adoperandosi a diversi lavori linguistici e traduzioni, prima tra tutte quella del Vangelo. Quando poté fare la prima consacrazione in quelle regioni, scrisse: «Sacro Cuore di Gesù, grazie per questo primo Tabernacolo in terra Tuareg! Che sia il preludio di molti altri e l’annuncio della salvezza di molte anime! Sacro Cuore di Gesù, risplendi dal fondo di questo Tabernacolo verso i popoli che ti circondano senza conoscerti! Rischiara, dirigi, salva queste anime che Tu stesso ami!».
A Tamanrasset, durante la Grande Guerra, costruì anche una sorta di fortino per proteggere la popolazione locale dai predoni. E fu proprio una banda di predoni a ucciderlo l’1 dicembre 1916, primo venerdì del mese, giorno dedicato al Sacro Cuore. Ma quel chicco di grano non è rimasto senza frutto, perché gli scritti di Carlo hanno avuto da allora una diffusione straordinaria. E oggi sono tanti i gruppi e congregazioni di laici, sacerdoti, religiosi e religiose che ne perpetuano il carisma in tutto il mondo.
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