San Carlo visita gli appestati, l’Amore che nasce da Gesù
Ogni anno, per la sua festa liturgica, lungo la navata centrale del Duomo di Milano vengono allestiti i “quadroni” di San Carlo, la cui esecuzione fu affidata, agli inizi del XVII secolo, ai pittori più celebri del momento. Tra le tele, 56 in tutto, notevole è l’episodio del “Santo che visita gli appestati”, dove il vescovo Carlo, umile tra gli umili, benedice gli infermi nel nome di Gesù Salvatore
Giovan Battista Crespi, S. Carlo visita gli appestati, Milano – Basilica Cattedrale Metropolitana della Natività della Beata Vergine Maria (Duomo)
“Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14)
Se Cristo, come scrive san Paolo ai Colossesi, è “immagine del Dio invisibile”, similmente i santi sono immagini di Cristo, cui gli uomini e le donne, di buona volontà, guardano per trarne edificante esempio. L’arte, allora, quella che ne tramanda le gesta, straordinarie o quotidiane che siano, si trasforma in memoria e, dunque, in utile strumento di preghiera. Questo, senz’altro, sono i cosiddetti “quadroni” di San Carlo, le grandi tele che ogni anno, in occasione della festa liturgica del santo arcivescovo ambrosiano, vengono allestite lungo la navata centrale del Duomo di Milano, rimanendo visibili ai fedeli fino alla conclusione delle festività natalizie.
Quando nel 1602, trascorsi solo diciotto anni dalla morte, il Capitolo della Cattedrale commissionò il primo ciclo, il Borromeo era stato proclamato beato. Ai pittori più celebri del momento venne, dunque, affidata la rappresentazione dei “fatti della vita del beato Carlo”, sotto l’attenta direzione del cugino, il cardinale Federico. Di lì a poco, nel 1610, questa volta in occasione della canonizzazione, a pennelli altrettanti illustri ci si rivolse per la seconda serie di dipinti, raffiguranti, invece, i suoi miracoli. Le tele, 56 in tutto, incluse quelle aggiunte più tardi, sono, dunque, un’opera corale, un racconto agiografico per immagini che, se dal punto di vista artistico è da classificare tra i vertici del cosiddetto Barocco lombardo, è soprattutto da ammirare quale frutto ed espressione della venerazione nutrita dal popolo ambrosiano verso il suo pastore.
Per dare forma e colore a questa diffusa devozione si prodigarono, dunque, molteplici artisti che codificarono, nella diversità dei loro stili, l’iconografia carlina, mettendo tutti in risalto le virtù del santo, la sua indefessa carità, il forte senso di responsabilità verso il gregge che gli era stato affidato. Il Cerano, al secolo Giovan Battista Crespi, fu, tra i suoi colleghi, il più grande interprete della spiritualità di san Carlo, caratterizzata da un forte accento tridentino. A lui, ma anche al Morazzone, al Landriani, al Procaccini, per citarne alcuni, si devono gli scatti vivaci, e molto teatrali, di una vita spesa per amore di Cristo e della Chiesa, nell’urgenza di fare sentire quest’ultima prossima ai Suoi figli.
Nell’episodio del Santo che visita gli appestati, per esempio, san Carlo incede in sella alla sua mula bianca, attraversando, umile tra gli umili, un lazzaretto, sullo sfondo del quale s’intravvede il profilo di una città. Nel concitato scenario di corpi segnati dal dolore, l’arcivescovo procede lentamente, confondendosi con essi, se non fosse per quel timido gesto benedicente che dice della sua fede in Gesù Salvatore, affermata pur in quel drammatico contesto.
Il suo amore per il Crocefisso, di fronte al quale è spesso ritratto in adorazione, è la chiave di lettura di tutti gli episodi: con la preghiera e con le opere divenne icona vivente di Cristo, cara al suo popolo che nei grandi teleri del Duomo la possono anche oggi seguire.