Samira impiccata, sottomissione e morte di una sposa bambina in Iran
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Samira Sabzian Fard è stata impiccata in un carcere iraniano, condannata a morte per l'uccisione del marito. Lo aveva dovuto sposare quando aveva 15 anni.
Si è conclusa in Iran il 20 dicembre, all’alba, la breve, infelice vita di Samira Sabzian Fard. Aveva 29 anni ed è stata impiccata nel carcere Ghezel Hesar di Karaj, una città vicino alla capitale Teheran, condannata a morte per aver ucciso il marito. Samira è stata una sposa bambina, data in moglie dai genitori nel 2009 quando aveva 15 anni a un uomo che si è rivelato essere autoritario e violento. Per quattro anni Samira ha sopportato il suo destino. Nel frattempo ha avuto due figli. Nessuno è venuto in suo aiuto.
L’islam impone alle donne sottomissione. Picchiare la moglie è diritto e dovere del marito che ha il compito di indurre all’obbedienza e a un corretto comportamento mogli e figli. Lo sostengono molti imam, anche tra quelli che parlano dalle loro moschee in Europa, alcuni addirittura spiegando come farlo, dove e come colpire. Se un marito ne approfitta e sfoga sulla moglie la propria collera e frustrazione, difficilmente gli viene rimproverato. Persino in Marocco, il paese islamico con il diritto di famiglia che riconosce più diritti alle donne, è successo alcuni anni fa che in un programma televisivo una estetista insegnasse alle donne come mascherare con il trucco, con fard e cipria, i segni sul viso delle percosse ricevute dal marito troppo arrabbiato per ricordare la raccomandazione di risparmiare il viso.
In Iran alle mogli non è consentito chiedere il divorzio nemmeno in caso di violenze domestiche. Stremata, senza il sostegno dei famigliari che pure conoscevano la sua situazione e quindi senza via d’uscita, Samira nel 2013 ha ucciso suo marito, sembra con l’aiuto di due persone, una delle quali sua sorella minore. Il suo è stato giudicato omicidio volontario. Non sono stati considerati come elementi attenuanti gli abusi e la violenza domestica subiti. La pena di morte poteva esserle risparmiata solo se i genitori del marito avessero acconsentito a perdonarla. In Iran infatti i reati di sangue ricadono sotto il qisas, il principio, che noi chiameremmo del taglione, secondo cui un'offesa mortale deve essere compensata infliggendone una uguale. Spetta alla parte lesa, a chi è stato privato di un congiunto, decidere se avvalersi del qisas oppure perdonare, eventualmente chiedendo un risarcimento che viene chiamato “prezzo del sangue”. Per inciso il qisas, a seconda delle interpretazioni del diritto islamico, può richiedere la morte di due donne per compensare quella di un uomo: questo perché una donna vale metà di un uomo. Analogamente nei tribunali islamici, se la legge coranica viene applicata con rigore, la testimonianza di una donna vale metà di quella di un uomo. Ma non essendo questo il caso sotto il regime degli ayatollah, la vita di Samira è bastata a compensare quella tolta al marito.
A dare la notizia della sua esecuzione è stata Iran Human Rights, una organizzazione non governativa che ha sede in Norvegia. «Samira – ha scritto in un comunicato il direttore dell’ong, Mahamood Amiry-Moghaddam – è stata vittima per anni di segregazione di genere, di matrimonio minorile e di violenza domestica. Oggi è diventata la vittima della macchina omicida di un regime incompetente e corrotto che si sostiene con la violenza e la paura. Il leader supremo Ali Khamenei e altri funzionari della Repubblica islamica devono essere chiamati a rispondere di questo crimine efferato».
È vero che il regime iraniano usa la violenza e il terrore. È così che ha reagito alle proteste iniziate nel 2022 dopo la morte di Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale perché non indossava il velo in modo corretto e morta mentre era in un centro di detenzione. 582 persone sono state uccise e 18mila arrestate nel 2022. Quest’anno si ritiene che le vittime siano ancora di più. Ma se anche quello degli ayatollah non fosse un regime violento e corrotto, questo non avrebbe salvato Samira e, con lei, tutte le persone, donne e uomini, soggette alla legge coranica secondo l’interpretazione che in Iran ne dà l’islam sciita che, come quello sunnita sebbene con delle differenze nella loro applicazione, ha fatto proprie le istituzioni dei sistemi patriarcali e delle economie arcaiche nei quali l’islam è germinato.
Gli ayatollah attribuiscono quindi autorità e potere agli uomini sulle donne, ai capifamiglia sui famigliari, impongono alle donne obbedienza, sottomissione, limitata libertà di movimento, quasi nulla libertà di autodeterminazione, precise regole di comportamento e di abbigliamento in pubblico, sul rispetto delle quali vigila la polizia morale. Ammettono il matrimonio infantile e combinato. Che si tratti di matrimoni sontuosi o modesti, comunque sono legalizzati dalle firme del marito e del tutore della sposa, il padre o chi ne fa le veci, persino all’insaputa della donna. Così condannano tante piccole vite. Ogni anno in Iran migliaia di bambine passano dall’infanzia allo stato di adulte subendo decisioni prese da altri, fortunate se finiscono nelle mani di un buon marito, di una buona famiglia. Ma nel mondo ogni anno, soprattutto in Asia e in Africa, sono almeno 12 milioni le ragazze e le bambine che subiscono la stessa sorte, che diventano mogli prima di aver compiuto 18 anni, una ogni cinque, 28 al minuto. Nei paesi meno sviluppati il 40% delle donne si sposano prima di diventare maggiorenni, il 12% prima di compiere 15 anni. In totale, secondo stime dell’Unicef, oggi al mondo vivono 650 milioni di donne che si sono sposate prima di diventare maggiorenni.